|
|
L’humanitas. Senza più il discorso della morte
|
|
«Deus mortem non fecit», Sapienza 1-13. Eppure, la morte è diventata principio e tabù. Principio di morte e tabù. Nell’era della telecomunicazione, viene ancora affermata la morte come tabù. Nella città tanatologica, il messaggio è continuamente tale da confermare questo tabù. L’epoca new age è l’epoca del tabù della morte bianca.
Ciò non toglie che ci siano anche le tragedie, ma le stesse tragedie, tranne in alcuni casi, sono nell’ordinario, mentre la tragedia è sorta nell’ordinale. È sorta nel festivo. Il discorso occidentale ha assunto la tragedia greca, epurandola del mito, della poesia e del diritto e tramutandola in discorso della festa. La tragedia si scriveva nella festa. E narrava. Di saghe. Narrava e cantava, ciascuna volta, di una saga, i cui fatti erano estranei alla tragedia stessa, che veniva apparentemente riprodotta, in effetti inventata. Inventata per la seconda volta. L’omicidio non avveniva, nella tragedia greca. Veniva raccontato. Era un fatto, che apparteneva a ciò che doveva rimanere estraneo alla scena della tragedia. Anche il cosiddetto comune «caso di morte». Ma il caso non è di morte.
La festa è il luogo della morte funzionale all’economia del discorso.
Il discorso della festa è il discorso della morte. Così viene stabilito, fissato, fondato, scritto. E costituisce il discorso occidentale.
Distinto tra il festivo e il feriale, tra l’ordinale e l’ordinario.
Tutto ciò, oggi, sembra tanto acquisito da costituire il luogo comune, la festa come luogo comune. Qual è il luogo comune? È il luogo comune dell’uomo mortale.
Sant’Agostino termina il paragrafo 15 del libro IV del De Trinitate con questa formula: «Nos enim ad mortem per peccatum venimus.
Ille [Gesù Cristo] per iustitiam. Et ideo cum sit mors nostra poena peccati, mors illius facta est ostia pro peccato». L’intero paragrafo, e molto prima anche, esplora come Adamo, l’uomo, avrebbe avuto questa pena: la morte. È ciò che ha come altra faccia la colpa. E entrambe, la colpa e la pena, si fondano, nel discorso giudiziario, sull’istituto della vendetta. Il sistema morfologico dinamico è il sistema della vendetta o l’istituto stesso della vendetta, che forma, fonda, struttura l’istituto della colpa e l’istituto della pena. Tutto ciò è discorso della morte.
Il discorso genealogico è il discorso della morte. Discorso umano. Le donne non ne fanno parte. Esse ne sono il supporto. È nel discorso di Aristotele e poi, man mano, viene confermato da compromessi, anche con il cristianesimo: sia nell’eresia nestoriana sia nell’islam sia nella religione ortodossa e nella religione protestante sia nel fondamentalismo cristiano e cattolico. È innegabile che, nel cristianesimo e nel cattolicesimo, ci sia stato fondamentalismo, che il compromesso si sia attuato anche per molti secoli.
Non a caso l’inquisizione, non a caso le persecuzioni, non a caso le guerre in nome di Dio.
La guerra in nome di Dio indica dove porta quella religiosità, che nega la parola originaria. Dio è irreligioso: «Deus mortem non fecit». Se Dio avesse fatto la morte, sarebbe religioso. Sant’Agostino scrive: noi infatti veniamo alla morte per il peccato, attraverso il peccato. L’uomo, Adamo, è l’uomo mortale, l’uomo che ha la pena nella morte. Che cosa fa Gesù Cristo? Sant’Agostino interviene con molti brani, tratti, per esempio, dal Genesi, 106, a proposito del «mediator diabolus fuit persuasor peccati et precipitator in mortem».
Il mediatore. Il diavolo, il mediatore, il persuasore del peccato e precipitatore nella morte. Questa è ancora la questione. Poi altri brani, sopra tutto il Vangelo di Matteo, i Salmi, la Lettera ai romani.
E poi il Genesi, che sant’Agostino riprende. Dalla Lettera ai corinzi: «Ut ergo sicut per unum hominem mors», la morte arrivata per un solo uomo, procurata da un solo uomo, «ita per unum hominem fieret resurrectio mortuorum». Uno solo.
Prima che la morte, oggi, sia business, questo business è stato già colto dalla repubblica greca, nella filosofia politica, che ha inteso cristallizzare, fissare le cose, in modo da assicurare alla Grecia il dominio del pianeta. Alessandro Magno. Roma, una repubblica, pur non ispirata al discorso occidentale, è presa, poi, dal discorso occidentale. Fa un compromesso. È solo così che si assicura, a suo modo, il presunto dominio. Questo unus homo diviene homo mortalis, visibile: è questo il business. Il business è sull’homo mortalis e visibile.
Ciò che è mortale è visibile. Il filius, come mortale, è visibile.
Filius, ma, anche, unus homo. Poi, anche unus soltanto, perché unus o filius è la stessa cosa. Che cosa afferma Gesù Cristo come unus, come filius, come figlio? Che procede dal padre. Non la smette di ribadire che procede dal padre. È unus, procede dal padre. Non è unus che stia al posto del padre, non è unus senza il padre. Nos ad mortem per peccatum venimus. Qual è il peccato? Qual è il segno del peccato? La morte. È la morte, che è funzionale all’economia del peccato dell’Altro, all’economia del male dell’Altro e all’economia dell’incesto dell’Altro. Poi, nella filosofia della riforma e sopra tutto nella filosofia romantica, la morte ha ripreso il suo trionfo. La morte possibile, probabile, necessaria.
Spazializzazione dell’intervallo: al punto di astrazione o al punto di oblio si sostituisce il punto di morte. Il caso di morte. In punto di morte. La deiezione più comune. L’eroismo conferma il discorso della morte, perché nega l’audacia. La morte al posto dell’Altro, al posto della differenza conferma la morte come tabù e il fatalismo.
Il fatalismo può intervenire soltanto se la morte è tabù. Il fatalismo, positivo o negativo. Questo è nel discorso della festa. Il fatalismo positivo o negativo è inscritto nel discorso della festa.
La mitologia mediterranea è diventata la mitologia del pianeta, il discorso della morte. Con i vari compromessi.
Freud si è trovato, per una svista, a ammettere il filius. La svista è data dalla pulsione di morte, che non è istinto di morte, né aggressività. È funzione di figlio, funzione di uno che rilascia la lettera. Filius invisibile, immortale.
La differenza, che sorge con il figlio, sorge per la pulsione di morte. Diviene pulsione di differenza, pulsione indispensabile per la scrittura della frase. La frase è la struttura in cui il figlio funziona, in cui l’uno funziona. Il filius procede dal padre: Freud stabilisce la pulsione di morte, nella simultaneità con la pulsione di vita, entrambe procedenti dal due. La dualità pulsionale: la pulsione procede dal due. E la pulsione di morte procede dalla pulsione di vita. Questa è la novità. È il modo con cui, tenendo conto, a suo modo, dell’apporto di Sabina Spielrein, Freud si trova a enunciare, subito dopo la prima guerra mondiale, qualcosa a proposito della guerra. La prima guerra mondiale aveva prodotto, nell’intellighenzia europea e americana, di vari paesi, un’impressione enorme. Purtroppo ce ne sarebbe stata un’altra, se così possiamo dire, ancora più letale e, tra le due e durante le due, massacri.
Deus mortem non fecit. Dio, qui, a proposito del filius, come interviene? Deus mortem non fecit. Se Dio ha fatto la morte, l’ideologia dell’invidia, del malocchio, della iettatura, della superstizione, regge. Se l’uomo è mortale, tutto ciò regge: il visibile, l’occhio senza lo sguardo, anche se si chiama occhio di Dio. L’occhio senza lo sguardo. L’occhio di Polifemo.
Lo sguardo, l’oggetto, condizione della struttura in cui funziona il filius. E Dio è l’idea dello sguardo. Lo sguardo è la condizione stessa della frase, dove funziona il filius. Sta qui lo iato fra l’etica e la morale. Se Dio non interviene a proposito del filius, dell’uomo come immortale, della resurrezione, sopraggiunge la morale: Dio, se interviene, opera, affinché la frase si scriva. L’etica è il compimento della scrittura della frase. Credersi o pensarsi. L’idea dello sguardo è l’intervento di Dio, affinché la frase si scriva. L’idea dello specchio è l’intervento di Dio, affinché la sintassi si scriva. E l’idea della voce è l’intervento di Dio, affinché il fare si scriva. Troviamo qui la legge, l’etica e la clinica in un modo senza precedenti. La legge non è la legge ebraica e non è la lex romana dura. La legge della parola non è dura lex. Credersi è altra cosa. «È impossibile», dice Antonio Vangelli. La giustizia, anziché la morte.
«Ille»: Cristo è arrivato alla morte, «per iustitiam». La morte senza più pena. Senza più peccato. Che cosa sfata, Cristo? Sfata il discorso della morte. Sfata il discorso occidentale. La iustitia è, appunto, il modo in cui l’oggetto della parola, l’ostacolo, la pietra d’inciampo, lo scandalo, interviene. Il modo in cui lo scandalo interviene, questa è la giustizia. Lo scandalo: lo specchio, lo sguardo, la voce.
«Et ideo cum sit mors nostra poena peccati». «Mors nostra poena peccati»: nel discorso occidentale, la morte è pena per il peccato.
Con Cristo, la morte è ostia senza più peccato. «Pro peccato», ostia senza più peccato. Che cosa comporta questa iustitia, modo dello scandalo della parola? Lo scandalo del senso come effetto, del controsenso, lo scandalo del sapere come effetto e lo scandalo della verità e del riso come effetti: il sembiante è causa di senso, causa di sapere, causa di verità. Questa è la giustizia, che con Cristo interviene.
Il diritto sarà altra cosa, a partire da questo: non può più lasciare il posto alla giustificazione dell’Altro. Se lo sguardo viene tolto, prevale l’occhio, con rivalità, con competizioni, con concorrenze, con il malocchio. Mentre il discorso della morte è un discorso zoologico, un discorso della renovatio, questo intervento dello sguardo come scandalo del sapere implica la resurrezione come proprietà dell’unus, proprietà del filius, proprietà dell’homo immortalis. Il soggetto è una creatura gnostica, creato affinché la morte sia una possibilità e rientri nella conoscenza, affinché la conoscenza della morte sia la conoscenza fondamentale. Il soggetto alla morte è soggetto alla legge, soggetto alla pena. Questo soggetto è il supporto e il garante del discorso giudiziario.
Questa impalcatura toglie il principio della parola e lo sostituisce con il principio della morte. Le virtù del principio della parola vengono attribuite al principio della morte. La libertà è intesa, non più come libertà della parola, libertà della vita, libertà di vivere, ma libertà di morire, libertà della morte. La libertà è la morte. C’è chi dice: «Io faccio quello che voglio. Posso anche morire». Un eroe. Non bisogna confondere l’eroismo con il narcisismo. Non c’entra niente. Il narcisismo è della parola, l’eroismo sorge su questo principio di morte. Questa libertà di morire viene reclamata, addirittura, sotto la forma di un diritto civile.
La costituzione americana sancisce la libertà: morire è una cosa possibile. Si può scegliere. La libertà fondamentale degli umani è la libertà di morire.
Le dottrine mediche intorno al cancro e all’Aids s’inscrivono nel discorso giudiziario. Il terminale diventa un attributo fondamentale.
Il terminale. Anche le varie considerazioni sullo stato della malattia, più che della salute, sono una specie di prolessi del terminale. Anticipano il terminale. Le cure sono come se fossimo arrivati nella fase terminale. Che cos’è terminale? Non è il punto e contrappunto. Non è lo scandalo. Non è lo stigma.
Non è lo specchio né il controspecchio. Non è lo sguardo né il controsguardo. Non è la voce né la controvoce. Non è il punto né il contrappunto. È il punto di morte. L’uomo è sempre in punto di morte. Che ci sia il terminale è importante per il discorso medico: un trattamento delle malattie chiamate terminali. Malattie mortali. Peccato mortale.
Di che morte è malato? Oppure: «Per quanto tempo? Fra quanto tempo? Quanto resta? Ah, per lui è stata una liberazione!», dicono i medici, i parenti, gli amici. «Ah, non ne poteva più di soffrire». Il nostro amico Vincenzo Accame, io lo avevo incontrato venti giorni prima e voleva scrivere un libro sulla malasanità: «Se non riesco a scriverlo, Le rilascerò almeno una lunga intervista». Il luogo comune è quello della prigione e della liberazione. Gli umani sono in prigione, in schiavitù, e, morendo, si liberano.
L’iperuranio è lo stracielo. Ma ciò che importa è il terrestre, il mondano, e bisogna liberarsi dal terrestre e dal mondano, negazione della materia della parola. Da qui la statistica.
Il femminilismo ha tanto insistito sul fatto che le donne, se non rientrano nel discorso della morte, è bene che, invece, facciano di tutto per entrarci. Un’opera di Enzo Nasso è intitolata, per ironia, Femminismo: il femminismo è la donna in croce, che, così, diventa come l’uomo. Non è più il supporto, non è più lì, ai piedi della croce.
Il discorso della morte è diventato un discorso comune. La visibilità, nella nostra epoca, è la legge dell’esistenza, la legge del vivente trattato come morituro.
L’ultimo viaggio. Malattia mortale: la malattia mentale dice la verità, secondo il discorso occidentale. La malattia che dice la verità, la malattia che dice la morte e che significa e è significata dalla morte, è la malattia mortale. Malattia mentale: malattia senza la mente, senza il tempo. Se noi tramutiamo il disagio in malattia mentale, noi diciamo che non c’è ritmo e non abbiamo da instaurare dispositivi di ritmo. Questa malattia occupa tutto l’intervallo. Occupa l’intervallo, infatti è terminale.
Un’altra opera di Enzo Nasso si chiama La vergine armata. È un’opera bellissima, con un’ironia enorme verso la morte, perché questa vergine armata sembra proprio la morte. Sarebbe la verità come la morte. La donna è come la morte? La donna non partecipa al discorso della morte, ma viene data come la morte e come supporto della genealogia, fondata sul discorso della morte.
Quello che la filosofia greca, la filosofia della riforma, la filosofia romantica, la dottrina nestoriana, la dottrina islamica, la dottrina protestante, la dottrina ortodossa chiamano la morte è l’idea di padronanza. Si può rappresentare come eroismo, come arroganza, ma è l’idea di padronanza. L’idea di padronanza sulla parola, sulla città, sulla repubblica. Se noi leggiamo il testo di sant’Agostino, il testo di san Tommaso, il testo di san Basilio, il testo di san Giovanni Crisostomo, troviamo la morte, nell’intervallo, senza spazializzare l’intervallo, la troviamo come l’indice della differenza.
La libertà originaria è la libertà della parola. La libertà di vivere, anziché la libertà di morire.
L’anoressia intellettuale è la non accettazione intellettuale della morte. Noi non accettiamo l’idea di padronanza sulla parola. Idea materna. Fantasma materno: il fantasma di morte come fantasma di padronanza sulla parola, che spazializza la parola, localizza l’oggetto, spazializza l’intervallo.
Tutti i tabù si fondano sul tabù della morte, che sarebbe la sacralità stessa, senza il dire, senza il fare, senza lo scrivere, senza il comunicare.
19 luglio 1999
|
|
|
|
|