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C’è lo spettro Somalia: basta ipocrisie


  
 
Notazioni
Militari ammutinati mettono fuoco alle polveri di un disordine politico sociale latente. In Afghanistan, i talebani, mandati allo sbaraglio quattro anni fa, riemergono con violenza. In Somalia, pick-up e 4x4 irte di mitragliatrici assicurano il trionfo dei più fanatici. E l’Iraq piange ogni giorno le sue cataste di civili sgozzati, fatti saltare in aria, abbattuti da nostalgici sanguinari di Saddam Hussein. Per molto tempo, il peccato mentale dei militari occidentali fu quello di immergersi nei conflitti del giorno in ritardo di una guerra. Questa abulia colpisce ormai gli alti dirigenti pacifisti che si stordiscono con le pseudo-lezioni del passato rimproverando a Washington di impantanarsi in un «nuovo Vietnam». Nulla è più ingenuo: Zarqawi non era Ho Chi-Minh. L'Iraq esce da trent'anni di una spaventosa dittatura totalitaria e non da tre decenni di sommossa anticolonialista. Nessun dato geopolitico consente di applicare all’attuale confusione irachena gli schemi dell’ultima grande guerra calda dell’epoca, per fortuna passata, della guerra fredda. La minaccia che pesa sulla società irachena non è una vietnamizzazione, ma una «somalizzazione». Ricordate quando, patrocinate dall’Onu, truppe internazionali, con gli americani in testa, sbarcarono a Mogadiscio (Operazione «Restore hope, 1993)? Bisognava garantire la sopravvivenza di una popolazione affamata e massacrata da clan rivali. Avendo perso 19 dei loro soldati in una spaventosa trappola, i soldati americani tornarono indietro. Il resto è noto. Clinton, scottato, giura «mai più» e un anno dopo rifiuta d’intervenire in Ruanda (aprile 1994), dove sarebbero bastati 500 caschi blu per interrompere il genocidio che travolse un milione di Tutsi in tre mesi (record di Auschwitz battuto nel rapporto rapidità/numero di vittime). Il seguito del seguito non è meno noto, la peste sterminatrice si propaga nell’Africa tropicale, si contano milioni di morti in Congo e dintorni. Oggi, la Somalia è in mano alle bande armate dei «Tribunali speciali» - alimentate dai fondi segreti che la Cia ha investito invano contro di loro - e un nuovo Afghanistan dei talebani rischia d’installarsi nel corno d’Africa.
È da notare che il comando delle operazioni varia. L’Onu è responsabile nel Timor. La Nato (con una forte partecipazione europea) in Afghanistan. Il Pentagono in Iraq. Eppure, le situazioni coincidono, poiché l’avversità da controllare è fondamentalmente la stessa. Il modello ridotto somalo si diffonde sul pianeta. Le popolazioni diventano bottini di guerra dei caid locali senza dio e senza patria. Con il pretesto di vessilli volubili - religione, etnia, ideologia improvvisata razzista o nazionalista, dovere di memoria falsificato - i commando si disputano il potere a colpi di kalashnikov. Si battono meno fra di loro che contro i civili; questi rappresentano il 95% delle vittime, innanzitutto donne e bambini. Il terrorismo, definito come attacco deliberato di civili in quanto tali, non è appannaggio dei soli integralisti islamici. Notate bene che il procedimento è stato ed è impiegato da un esercito regolare (benedetto dai pope ortodossi) e da milizie agli ordini del Cremlino in Cecenia, dove si contano decine di migliaia di bambini morti. Quando gli assassini si appellano al Corano, sono ancora i passanti disarmati, musulmani, ad agonizzare. La Somalia è il laboratorio in vivo dell’abominio degli abomini: la guerra contro i civili.
Fra il 1945 e il 1989, data della caduta del Muro di Berlino, la guerra fra i blocchi fu fredda, tanto in Europa che nel Nord America. Altrove, scoppiarono ovunque rivoluzioni e controrivoluzioni, ci furono colpi di Stato e massacri di milioni di individui. Mai, nella storia, le società umane furono scosse così tanto come nel breve mezzo secolo in cui crollavano gli ingiusti imperi coloniali; mentre troppo spesso guerre di liberazione, sommosse e insurrezioni generavano nuovi dispotismi più o meno totalitari. Nella tormenta, le tradizioni millenarie andavano a farsi benedire. Regimi, usanze e legami secolari furono sistematicamente distrutti. Al termine di tale sisma storico mondiale, i due terzi dei nostri simili hanno perso i loro punti di riferimento. Non possono vivere come prima. E non possono più (non ancora, dice l’ottimista) esistere come i cittadini tranquilli degli Stati di diritto occidentali. In ogni angolo dell’universo sussistono vivai di guerrieri giovani e meno giovani, vestiti come capita o in uniforme, ugualmente avidi di conquistare alloggi, carriere, donne e ricchezze.
All’inizio della Germania di Weimar (1920), Ernst Von Salomon profetizzava «la guerra del 1914-18 è finita, ma i guerrieri ci sono sempre» e i militari a mezza paga popolarono le sezioni d’assalto hitleriane. Alla caduta dell’impero sovietico, il dissidente Vladimir Bukovski avverte: «Il dragone è morto, ma le dragonnades (persecuzioni esercitate dai dragoni di Luigi XIV contro i protestanti, ndt ) si propagano». Un’ex armata rossa devastò, sotto Milosevic, l’ex Jugoslavia; un’altra, sotto Eltsin e Putin, devastò il Caucaso del Nord. Sarebbe stato meglio non far cadere Saddam autorizzandolo a completare per un altro decennio la sua orribile rassegna di torturati, sciancati e cadaveri? Uno o due milioni di vittime in un quarto di secolo? Gli iracheni, malgrado le minacce di morte, si sono recati per tre volte, sempre più numerosi, alle urne, e non sembra rimpiangano la caduta del dittatore. È bene che oggi i soldati americani e i loro alleati sloggino immediatamente come in Somalia? Anche i governanti più antiamericani, i più invasati come i francesi, si augurano che questo non accada e che la coalizione non abbandoni il terreno ai tranciatori di teste.
La lotta per evitare la «somalizzazione» del pianeta comincia appena, probabilmente dominerà il XXI secolo. Se resistono alla malia dell’isolazionismo, gli americani impareranno dai loro errori. E l’Europa si deciderà ad aiutarli, oppure si abbandonerà alle premure del petro-zar Putin, pronto a fare il gendarme del vecchio continente predicando il terrorismo antiterrorista, basandosi sulla sua opera di devastazione della Cecenia. La sfida senza frontiere dei guerrieri emancipati, schiavi dei loro comodi, accorda poco tempo alle nostre tergiversazioni. Occorre scegliere. O si accetta la somalizzazione generale cercando rifugio in un’illusoria fortezza euro-asiatica. O si resuscita un’alleanza democratica, militare e critica euro-atlantica.
(traduzione di Daniela Maggioni)
 
Relazioni
André Glucksmann (Filosofo e scrittore)





 
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