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 Un rabbino a Gaza


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Un rabbino a Gaza


  
 
Notazioni

Un rabbino in visita nella città palestinese martoriata dalle bombe. Un imam tra le vedove israeliane di Sdérot. E con loro uno scrittore, francese, polacco ed ebreo. Che a pochi mesi dalla fine della guerra racconta il viaggio attraverso le frontiere dell'incomprensione. Per scoprire persone divise da un muro. Ma unite dalle stesse speranze e da uguali sofferenze

Un rabbino a Gaza è decisamente insolito. L'ultima volta che accadde, da quanto mi risulta, fu nel XVI secolo: si chiamava Nathan di Gaza e aspettava il Messia. Al posto di frontiera improvvisato, sul versante palestinese, l'uomo con la kippà fa un certo effetto. I poliziotti di Hamas - cinque uomini accalcati in una garitta di lamiera ondulata - sono sconcertati. Chiamano al telefono il loro superiore. Arriva un'ora dopo: quattro automobili strapiene di uomini armati si fermano con un gran baccano di clacson e sgommando sulla ghiaia. Il capo della sicurezza di Hamas, Abou Khaled, non è da meno dei suoi uomini in quanto a perplessità. Afferma di essere arrivato per assicurare protezione al rabbino e a noi, per difenderci dalla collera popolare. I primi bombardamenti su Gaza risalgono a pochi mesi fa.
La nostra missione presenta alcuni rischi. Con la fondazione "Hommes de Parole" e il suo presidente - il mio amico di lunga data Alain Michel - abbiamo intenzione di trovare un modo per abbattere il muro che separa i due popoli, quello israeliano e quello palestinese. Non mi riferisco al muro di cemento alto una dozzina di metri e che si allunga per oltre 350 chilometri, troppo solido per noi. Mi riferisco all'incomprensione tra gli uomini, così lontani e al contempo così vicini.
Attraversare Gaza con imam e rabbini è secondo noi un modo per rendere testimonianza. In terra israeliana si ripete incessantemente "Im irtzé Hashem" (se Dio lo vuole) e altrettanto fanno i palestinesi, ripetendo «l-Hamdoulillah». In un mondo nel quale l'influenza delle religioni aumenta di giorno in giorno, noi ci ripromettiamo di aprire na prima breccia accompagnando alcuni imam a Sderot, lungo la frontiera israeliana, e alcuni rabbini a Gaza. Da entrambe le parti ci sono individui di buona volontà: forse ne approfitteranno per tendersi una mano.
Da dove iniziamo? Prima di tutto da Gerusalemme, città santa delle tre religioni monoteiste. Non è forse questa città che Dio aveva eletto a sua dimora? Ci rechiamo subito a far visita ad Aviva e Noam Shalit, i genitori di Gilad, il giovane franco-israeliano ostaggio di Hamas a Gaza.
Hanno appena piantato la loro tenda in segno di protesta davanti alla casa dell'ormai ex primo ministro Ehud Olmert, chiedono che egli tratti con Hamas fino a liberazione avvenuta del figlio. Il nostro viaggio li mette in apprensione. Li capisco: la nostra avventura parte col piede sbagliato, non abbiamo ancora nemmeno le autorizzazioni, né degli uni né degli altri. Ci comunicano che i rabbini e gli imam muniti di passaporto israeliano non potranno varcare la frontiera. Quanto ai due popoli, ancora in lacrime per la morte dei loro cari, ancora frementi di collera, potranno comprendere le finalità della nostra iniziativa?
In un silenzio inquietante, alle tre del pomeriggio, ci mettiamo in viaggio. Il nostro convoglio è impressionante: è formato da tre semirimorchi carichi di 75 tonnellate di viveri, di materiale scolastico di vario genere e di giocattoli per i bambini di Sdérot e Gaza, e da un minibus pieno di imam, preti e rabbini. Il tutto ricoperto da gigantesche bandiere svolazzanti, che riportano le scritte "shalom", "salam", "paix", "peace" e firmate dal "Congresso mondiale degli imam e dei rabbini per la pace".
L'autista del minibus brontola: «Tutte le volte che passiamo qualcuno ci spara addosso». Esagera? Basterebbe che ci scagliassero un'unica pietra o perfino un solo insulto, e i giornalisti dietro di noi annuncerebbero platealmente che la nostra missione è fallita. A Sdéroti i bambini restano ore e ore nei rifugi per paura dei razzi lanciati da Gaza: l'arrivo degli imam - inconcepibile ai più - potrebbe scatenare la rabbia. La popolazione di Gaza, che ha subìto due mesi di bombardamenti israeliani ininterrotti, potrebbe reagire con violenza alla vista del primo rabbino.
Su queste strade lungo le quali di norma non transitano altro che carri, non passiamo inosservati, evidentemente. Molti si fermano incuriositi, alcuni alzano il pollice, come per incoraggiarci. È un gesto simbolico, ma siamo ancora lontani dal traguardo. All'ingresso di Sdérot ci aspetta una delegazione. Tra i primi che ci vengono incontro c'è il rabbino Zion Cohen, responsabile dei villaggi e dei kibbutz della periferia. C'è anche il Grande Rabbino d'Irlanda, David Rosen, l'uomo che tiene i rapporti con il Vaticano. Le autorità di Sdérot si interrogano sull'opportunità di questo nostro viaggio a Gaza.
Si dice che il bambino sia l'archetipo dell'uomo. Di certo, spesso è molto più coraggioso. Ci ritroviamo circondati da un centinaio di bambini, maschi e femmine: srotolano una bandiera lunga una sessantina di metri che hanno confezionato e dipinto loro stessi per noi. Ci chiedono di portarne una metà ai bambini di Gaza. Sulla bandiera hanno disegnato il loro sogno di fanciulli: la pace. Uno dei loro disegni rappresenta due figure che si tengono per mano. Un altro due colline, una di fronte all'altra, sulla cima delle quali campeggia da un lato la bandiera israeliana, dall'altro quella palestinese. In un altro disegno ancora compaiono soltanto due parole: "Shalom", "Salam". Esattamente al centro della bandiera una pistola nera è sovrastata da un segno rosso a X. Il messaggio è chiaro: vietato uccidere.
In Oriente le tenebre calano assai rapidamente. Alla luce dei lampioni, i bambini ci trascinano davanti alla loro scuola, e al seguito arrivano numerosi adulti. Ogni bambino ha una storia da raccontarci; purtroppo, si tratta sempre di una storia di guerra. Una donna piuttosto giovane, con lo scialle sulle spalle, si avvicina e ci dice che un razzo palestinese alcuni giorni fa ha ucciso suo marito. Aggiunge poi che nel luogo esatto della sua morte lei ha piantato un olivo.
Con aria di sfida, ci sollecita a raccoglierci in preghiera su questo monumento funebre improvvisato. Pare sorpresa, quasi sconcertata, forse, quando noi accettiamo. L'albero sembra brillare nelle tenebre. Hassen Chalghoumi, imam di Drancy, pronuncia qualche parola in francese; Michel Serfaty, rabbino di Ris-Orangis, traduce in ebraico; Padre Mathieu, romeno, e l'imam di Bruxelles, Yacob Mahi, dicono una preghiera.
Lasciamo Sdérot alle luce dell'alba per dirigerci a Gaza. Alle nove del mattino raggiungiamo la frontiera. Siamo a Erez. Questa è la tappa più pericolosa di tutto il nostro viaggio.
Davanti all'ingresso di Gaza non ci sono più porte: Sansone, il personaggio biblico, le portò via. Da qualche tempo sono state sostituite da cancelli elettrici e da metal detector con i raggi X. I giovani soldati israeliani che filtrano le rare persone che aspirano a passare la frontiera ci fanno attendere: siamo ancora privi di autorizzazione. Mezz'ora più tardi, lasciano passare il nostro gruppo. Anche il rabbino. Tranne il sottoscritto. I giovani soldati sono profondamente seccati. Telefonano al loro stato-maggiore. Si sentono dire che chi deve firmare il mio permesso è irreperibile. Il presidente di Hommes de Parole, Alain Michel, resta a tenermi compagnia. Due lunghissime ore più tardi, l'autorizzazione si palesa sul monitor dei computer delle guardie frontaliere. Il mio telefono cellulare squilla: i responsabili militari porgono le loro scuse per il malinteso. Ci lasciano ben poco tempo a disposizione: è già passato mezzogiorno e dobbiamo ripartire prima delle sedici, l'ora in cui la frontiera chiude. Alain Michel e io acceleriamo il passo. Seguiamo uno stretto passaggio tra due muri di cemento sovrastati dal filo spinato. Là soltanto gli uccelli si avventurano senza pericolo. Saliamo nella macchina che ci aspetta sul versante palestinese. Cerchiamo di raggiungere gli altri. La strada è vuota davanti a noi, possiamo premere sull'acceleratore. Dalle parti di Beit Hanoun avvistiamo delle rovine. Lungo la banchina, giù dalla carreggiata, si alzano delle sezioni di muro sfondate in più punti dagli obici e ricoperte di bandiere palestinesi. Incrociamo soltanto altri due automezzi, uno della Croce Rossa, l'altro del Consolato Generale di Francia e Gerusalemme.
Gaza città non ha l'aria di aver patito i bombardamenti, a eccezione della zona che si affaccia sul mare. Il quartiere al-Rimal al-Janubi, dove si trovavano alcuni edifici istituzionali, è raso al suolo. È lì - me lo ricordo bene - che Yasser Arafat ci aveva ricevuti nell'ottobre 1995 nel suo quartiere generale di al-Montada. Ma allora vivevamo ancora il periodo euforico immediatamente successivo agli accordi di Oslo, poco prima dell'omicidio di Yitzhak Rabin.
Gaza è stata fondata tra il 1400 e il 1500 avanti Cristo. Tre secoli dopo, nel 1190 a. C., un popolo di marinai originari di Creta - i filistei - occupò la città. Dall'imperatore Adriano prese nome tutta la contrada. Nel 637 i musulmani conquistarono Gaza.
Nel viale Omar al-Mokhtar, l'arteria principale della città, i negozi sono aperti, i banchetti straboccano di frutta. Un commerciante espone davanti alla vetrina del suo negozio le lavatrici direttamente sul marciapiede. Al centro del cordolo eroso che separa il viale, gli uomini di Hamas hanno piantato grandi cartelli riproducenti le foto dei martiri. Con mio grande stupore, osservo ovunque ritratti di Yasser Arafat. Eppure, Hamas li aveva proibiti dopo il 14 giugno 2007, data alla quale aveva conquistato la città dopo violenti scontri con Fatah.
Il centro culturale Adam, in via al-Abadidi, è stipato di gente, pare quasi dover crollare da un momento all'altro. Numerosi imam e parlamentari di Gaza ci stanno aspettando. Saliamo le scale affollate da cameraman di varie televisioni, per la maggior parte arabe. Ce n'è anche una francese, France2, e due americane. Ai vari piani la folla è compatta: non capita tutti i giorni di vedere una simile delegazione in un luogo così isolato dal resto del mondo. Alcuni funzionari di Hamas sono presenti, si sono disposti intorno al parlamentare Sayed Abu Suleyman, ma la loro presenza è discreta. Mi si avvicinano due uomini: uno indossa una kefiah, e all'orecchio sussurra «Siamo di al-Fatah, benvenuti!».
In piazza, davanti al Parlamento danneggiato da una bomba, la folla continua ad arrivare. Un uomo mi tira per la manica. Ha i capelli bianchi, il volto riporta segni di grande spossatezza, ha la barba mal rasata. Mi parla in arabo. Un bambinetto si offre di farmi da interprete. Il suo inglese è approssimativo: «Tutta la mia famiglia è stata sterminata», dice l'uomo dai capelli cinerei. «Allah ha salvato solo il mio fratello minore. Era in Francia durante i bombardamenti... tutta la mia famiglia...» dice con voce rassegnata. Attorno a noi si forma un capannello di persone. Un altro uomo, più giovane, allontana il mio interlocutore. Si scambiano qualche parola in arabo e il bimbo traduce: «Dice che ormai lei ne ha sentite abbastanza di storie del genere. Lui ha qualcosa di diverso da raccontarle». Vengo a sapere così che l'uomo si chiama Marwan, che abitava in riva al mare, accanto al quartiere raso al suolo dagli israeliani. Una sera, nell'oscurità più assoluta, teneva sulle ginocchia le sue due figliolette. Due soldati israeliani improvvisamente hanno fatto irruzione in casa sua. Uno di loro in un arabo stentato gli ha detto: «Non resti qui! Porti lontano di qui quelle bambine!». Pochi istanti dopo la casa è saltata in aria. L'uomo mi stringe la mano, come se fossi io quell'israeliano. Il suo sguardo è penetrante, pare infuocato. La polizia di Hamas si spazientisce. Ci esorta ad andarcene e allontana giornalisti e fotografi.
Gli incontri ufficiali hanno luogo alla scuola cristiana di padre Manuel Mussalem. Si tratta della più grande scuola della città: è frequentata da 650 alunni. Cento sono cristiani, tutti gli altri musulmani. Padre Manuel Mussalem porta un enorme basco in testa e va fiero della sua scuola. nel suo francese rauco spiega: «Questa è l'unica scuola mista... maschi e femmine insieme sugli stessi banchi». La folla, curiosa, si arrampica sui muri del cortile. I bambini giocano a fare canestro. All'improvviso il rabbino Serfaty e l'imam Chalghoumi, entrambi appassionati di basket, si uniscono a loro. Si formano così due squadre: una è quella dell'uomo che indossa la kippà, il khakham, (l'erudito, il saggio, parola identica in ebraico e in arabo), l'altra è quella dell'imam. Dall'alto, dai balconi e dalle finestre delle case circostanti, la gente si accalca, si affaccia, si appassiona alla partita. Alain Michel porta la bandiera dipinta dai bambini di Sdérot e i bambini di Gaza la srotolano. È lunga, ne occorrono parecchi per srotolarla tutta. Ci uniamo a loro. Si mettono a ballare. Il rabbino Michel Serfaty intona in ebraico la canzone popolare intitolata "Shalom Alehem", la pace sia con voi. Subito l'imam la traduce in arabo: "Salam Alaykoum". A quel punto tutti cantano: anche gli adulti che ci circondano, e la piccola folla composita che ci ha seguiti lungo la strada. I pochi uomini armati sui tetti delle case ci fissano con perplessità.
Lo ripeto: sono trascorsi pochi mesi dai primi bombardamenti su Gaza. Sorpresa: nessuno ci ha sparato addosso. Anzi, in pieno centro città, gli abitanti di Gaza si accalcano intorno a un rabbino, a un imam e a un giovane scrittore francese, cantando in ebraico "la pace sia con voi". I membri palestinesi della fondazione "Hommes de parole" iniziano la distribuzione dei viveri e dei giocattoli del Convoglio per la pace. Dobbiamo rimetterci in marcia verso la frontiera. Per le strade di Gaza, noto - incredulo - le numerose giovani donne che non indossano il velo.
(Traduzione di Anna Bissanti)

 
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