CHI È ZHOU QING Zhou Qing è nato in Cina nel 1965. Nella sua vita c'è un marchio indelebile: nel 1989 viene individuato come uno degli "agitatori" di Piazza Tienanmen. Subisce l'arresto, si fa due anni di carcere, dopodiché vorrebbero sottoporlo a rieducazione, ma lui rifiuta, tenta persino la fuga, e deve sorbirsi perciò altri otto mesi di reclusione. Oggi vive a Pechino, dove svolge l'attività di giornalista. Studia usi e costumi del suo popolo, e dal 2002 si occupa di problematiche alimentari. Nel 2006 pubblica "La sicurezza alimentare in Cina", opera per cui sarà insignito a Berlino del Premio Lettre Ulysses Award, ma che resisterà poco nelle librerie cinesi, vittima della censura. Il volume è apparso nel giugno del 2008 anche in versione italiana, per i tipi della casa editrice Spirali.
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Che combinano i cinesi con il cibo? È una questione che riaffiora periodicamente, anche in relazione a qualche clamoroso fatto di cronaca. Alcuni mesi fa il dibattito toccò uno dei suoi picchi più alti in seguito all'uscita del libro di Zhou Qing "La sicurezza alimentare in Cina", un contributo a dir poco esplosivo. Il saggio del giornalista cinese denunciava la deriva di cui è preda da tempo la produzione alimentare in quell'immenso Paese. Nel momento in cui il libro è uscito in Occidente, ha avuto notevole risonanza mediatica (in Italia ne hanno parlato diffusamente i principali quotidiani), ma il clamore è durato poco. Oggi sembra sia di nuovo calato il silenzio su quel testo e sulle rivelazioni che conteneva. Forse il clima generale è sfavorevole a certe denunce? La Cina è un importante partner commerciale e - soprattutto in tempi di crisi - non è il caso di inimicarsela... Può anche darsi, ma l'Italia grazie al cielo è ancora un posto dove non si può mettere facilmente la mordacchia alla stampa, ed è alquanto improbabile che i nostri giornalisti rinuncino a fare il loro mestiere solo perché ne potrebbe soffrire l'import/export. Sono piuttosto portato a credere che una più attenta analisi dell'opera di Zhou abbia indotto molti a considerarne i possibili limiti. In effetti il libro, per la particolare e delicata posizione dell'autore, è esposto a due rischi opposti: un eccesso di polemica, dovuto alla radicalizzazione dello scontro ideologico in Cina, o un eccesso di prudenza, dovuto ad un'abitudine inveterata all'autocensura. Insomma, Zhou Qing in certi casi potrebbe averci detto un po' più del vero, in certi altri un po' meno. Noi cercheremo di tener conto, nella nostra breve analisi, di entrambe le eventualità. Ma di questi aspetti ci occuperemo più avanti. È il caso invece di passare subito a sintetizzare, per i lettori che non lo conoscessero, il contenuto del libro.
Un romanzo dell'orrore Ma entriamo ora nel merito dei temi trattati da "La sicurezza alimentare in Cina". Avvertiamo chi intendesse leggerlo: è un piatto per stomaci forti. Le porcherie che vi sono assemblate suscitano il disgusto in qualunque persona normale. Chi vuol farsi un'idea ma non ha il tempo di sciropparsi tutto il libro, può far riferimento al capitoletto intitolato "50 tipi di alimenti tossici" (pag. 384), una summa del gastro-horror made in China. Vi fanno spicco per truculenza il tofu fermentato nelle feci di maiale, i gamberi tenuti in ammollo nelle urine (umane), la salsa di soia ottenuta dai capelli. C'è materiale abbondante per un film o un romanzo splatter, di quelli che fanno salire l'adrenalina ai ragazzini. Questo è ovviamente l'aspetto che colpisce di più. Ma colpisce particolarmente la nostra sensibilità anche il racconto di quelli che potremmo definire veri e propri crimini contro l'infanzia, perpetrati attraverso al sistematica adulterazione dei cibi ad essa destinati, con conseguenze sconvolgenti. Veniamo a sapere, per esempio, che il bombardamento di ormoni ha provocato la crescita della barba nei fanciulli e l'ipertrofia degli attributi sessuali nelle bambine. L'immagine di copertina, un lattante con la testa enorme, rigonfia come un palloncino che sta per scoppiare (sono gli effetti di un latte in polvere fraudolentemente privato dei principi nutritivi), ci commuove e ci indigna. Tutto il libro è attraversato dall'impietoso raffronto tra una tradizione alimentare antichissima ed eccellente e la miserevole situazione dell'oggi, in un crescendo drammatico che coinvolge emotivamente il lettore. Zhou Qing si chiede a più riprese come sia stato possibile arrivare fino a questo punto, stravolgere così tanto le attitudini di un popolo, e le risposte che tenta di dare appaiono spesso (a lui e a noi) insufficienti. Ma, prima di passare alle interpretazioni, va completato il quadro dell'attualità. Riassumendo all'estremo, si possono ricondurre a tre i filoni del degrado alimentare cinese: un uso a dir poco disinvolto di pesticidi nelle colture, di ormoni, antibiotici e anabolizzanti nell'allevamento, di additivi assortiti nella produzione di alimenti (a tutti i livelli: da quello semi-artigianale alla grande industria). I nomi di alcuni prodotti chimici ricorrono in modo ossessivo per tutto il libro: cloramfenicolo, clenbuterolo e DDVP ronzano nelle orecchie del lettore e restano a lungo nella sua memoria.
L'igiene: un problema secondario? La Cina negli ultimi anni è stata teatro di grandi epidemie virali: l'epatite, la Sars, l'aviaria... Zhou ricorda anche questo, nell'introduzione al suo libro. E tuttavia non sembra che il tema dell'igiene sia quello che lo preoccupa di più. Insiste molto sull'abuso di prodotti chimici, mentre parla esplicitamente di cattive condizioni igieniche solo a trattazione molto inoltrata (a partire da pagina 136): racconta il caso di un impasto alimentare lavorato con i piedi invece che con le mani. Nelle pagine seguenti si trovano qua e là altri accenni alle condizioni precarie degli ambienti di lavoro, alla sporcizia, alle scarse attenzioni del personale, ma sono elementi tutto sommato trascurabili, rispetto al resto. Questo ci fa riflettere, Certo, l'idea di igiene dei cinesi non corrisponde esattamente alla nostra. Me ne accorsi il giorno in cui entrando in un take away cinese vidi il cuoco accovacciato sulla soglia della cucina che mangiava allegramente del riso raccogliendolo da una ciotola posata per terra. Difficile dire se questa sia una diversità culturale, e perciò da rispettare, o un semplice segno di arretratezza civile, e perciò da correggere. Va aggiunto però che la Cina si sta velocemente occidentalizzando, quindi alla fine il tema della diversità culturale potrebbe andare ad esaurirsi. Comunque sia, questi alimenti vengono esportati, e chi li riceve ha il sacrosanto diritto di applicarvi le proprie regole igieniche, a prescindere. Un po' diverso il discorso se si tratta di prodotti realizzati con tecniche tradizionali, che non possono rispondere al cento per cento a normative moderne, pena la perdita delle proprie peculiarità. Per questi alimenti saremo i primi a invocare delle eccezioni, così come le abbiamo invocate per alcuni prodotti italiani (vedi certi salumi e formaggi).
Guerre commerciali e "barriere tecnologiche" Assolto l'obbligo di riassumere, commentare e criticare sommariamente il testo in sé, passiamo ora a vedere quali problematiche suscita e quale posto va ad occupare nel dibattito in corso. Non occorre certo sottolineare le ragioni per cui questo libro interessa (o dovrebbe interessare) i Paesi occidentali. La nochalance con cui i poveri cinesi si autoavvelenano stupisce e impietosisce, ma probabilmente non accadrebbe nulla, se non fosse per il piccolo particolare che i loro prodotti possono finire sulle nostre tavole, magari in modi ambigui e poco trasparenti (vedi lo scandalo della passata di pomodoro). Insomma, i problemi dei cinesi sono anche problemi nostri. E, viceversa, i problemi nostri sono anche problemi dei cinesi, visto che si basano molto sull'esportazione. Zhou sottolinea come proprio andando a sbattere contro quella che chiama la "barriera tecnologica" dei controlli altrui, la Cina abbia preso maggior coscienza della propria tragica situazione sul piano della sicurezza alimentare. In pratica vi è un dislivello enorme, dovuto all'arretratezza tecnologica, tra la qualità dei controlli interni e quella dei Paesi importatori come gli USA e la Germania. Fino a poco tempo fa i cinesi, anche volendolo, non avrebbero potuto effettuare analisi e test così sofisticati come richiedevano le normative dei Paesi destinatari delle loro merci. Oggi magari potrebbero, ma i costi per fare controlli ad ampio raggio su una produzione sterminata come quella cinese sono così elevati da rendere la cosa impraticabile. Questa barriera è stata usata, e continua a venire usata, anche in modo strumentale, come forma di filtro (in sostituzione di quelle norme protezionistiche che oggi non sono più possibili). Esigere qualità e salubrità sempre più elevate è diventata un'arma per combattere una guerra commerciale. Ma la Cina non può lamentarsene più di tanto. Zhou ripete spesso questo concetto: dobbiamo togliere ogni pretesto a chi vorrebbe creare problemi alla libera circolazione delle nostre merci. La severità altrui va vista come uno stimolo, e non come una condanna.
Una strategia per l'interno e una per l'esterno La lettura de "La sicurezza alimentare in Cina" lascia in bocca un gusto agrodolce, proprio come certi piatti cinesi. Dobbiamo essere ottimisti o pessimisti? Lo stesso Zhou sembra indeciso sull'atteggiamento mentale da sposare, e da far condividere ai suoi lettori. Cederà la Cina alle pressioni degli altri Paesi? Assumerà misure più severe per la sicurezza dei propri prodotti? Noi azzardiamo una risposta positiva. È urgentissimo per i cinesi invertire la tendenza al calo dell'export agroalimentare che si sta facendo pesante. Anche perché, in caso contrario, il danno potrebbe riverberarsi sul quadro politico interno (meno esportazioni impoveriscono i contadini, già poveri, e favoriscono le rivolte nelle sterminate campagne). Per questa ragione, anche per questa, non sembra convenire alla Cina chiudere gli occhi sulle malefatte alimentari dei suoi cittadini. C'è più di un punto, nel libro di Zhou, in cui viene detto in modo esplicito che il Governo invita gli organi di informazione interni a denunciare certi crimini. E del resto viene riportato un solo caso di autentica repressione ai danni dei giornalisti che denunciano problemi alimentari, quello di un certo Zi Beijia, giovane collega condannato ad un anno di carcere per aver pubblicato una notizia falsa. Misura grave e inaccettabile, sicuramente, ma se si pensa che in Cina vige un regime dittatoriale, un unico caso non basta per sostenere che vi è una spietata repressione verso chi denuncia i crimini alimentari. È ovvio che quando si tratta invece di dare un'immagine della Cina all'esterno, il discorso cambia, ed il Governo di Pechino è molto meno disposto a riconoscere le magagne. È un atteggiamento comprensibile, e non è appannaggio solo dei cinesi. Anche un film come "Gomorra", secondo alcuni autorevoli pareri, non andrebbe fatto vedere all'estero, perché offre un'immagine negativa dell'Italia. Sarebbe quindi poco saggio accusare di insensibilità la Cina solo sulla base della difesa d'ufficio che i suoi governanti fanno nelle sedi internazionali. Devono farla, e la faremmo anche noi, al loro posto. [...]
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