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Mai deridere gli avversari politici


  
 
Notazioni

L'EUROPA, LA RUSSIA E LA GEORGIA

Per essere di una generazione che ha molto ammirato Picasso, che ha letto Freud, ascoltato Lacan e Foucault, ho tendenza a stare in guardia quando le etichette «folle» e «follia» sono incollate ad atti o a individui condannati un po' alla svelta. Spesso è proclamato irrazionale un comportamento di cui non si vuole o non si riesce a cogliere la logica. Se il nemico è folle, ci possiamo permettere di tutto per bloccare la sua «rabbia»; se l'amico è folle, possiamo - per principio di precauzione - abbandonarlo. Se il mondo è folle, dormiamo pure tranquilli per evitare di aumentare il suo delirio. Oggi, la politica si serve a abusa di simili procedimenti retorici: insinuare o gridare che i nostri dirigenti «sragionano» diventa l'argomento ozioso per eccellenza. Certo, la derisione e la caricatura hanno in sé qualcosa di positivo e non devono mai essere oggetto di divieti legali. Tuttavia, quando occupano tutto il terreno, si trasformano in censura universale e il sogghigno si erge a suprema autorità. La psichiatrizzazione dell'avversario - di cui l'antisarkozysmo emerito offre in patria un esempio sensazionale - ha rapidamente l'effetto di una palla di neve, assume proporzioni via via più importanti: il numero 1 è «agitato», i suoi ministri «farneticano» su vestiti, soldi o sesso e poco dopo la reazione imprevista è che l'opposizione si auto-distrugge, vittima di una messa in ridicolo generale. Commentatori, frequentatori di salotti e di osterie si danno alla pazza gioia, il dibattito politico sprofonda a livello zero del pensiero. Nell'Italia di Berlusconi, nell'Inghilterra di Brown, persino nella Germania della Merkel, governanti e oppositori sono trattati come zimbelli.
Sulla scena internazionale, una deriva analoga, molto tradizionale, camuffa appena i disegni contorti di strategie perfettamente coerenti. E a volte i loro scopi criminali, come testimonia la disaffezione che subisce il Presidente georgiano Mikhail Saakashvili. Mosca scandisce il suo messaggio nei mass media e nelle cancellerie democratiche: il vostro cantore della libertà di ieri, oggi merita una terapia psichiatrica. La Russia pretende di sostituire i propri soldati con «infermieri» (Ragozin dixit). L'impeto di collera di Medvedev, che ha osato il paragone Saakashvili=Hitler, ha sbalordito; non è un argomento, ma quando l'amabile Putin parla di «impiccare per i coglioni» il Presidente georgiano democraticamente eletto, perché non ci si chiede ad altra voce dove sia il pazzo: a Tbilisi o al Cremlino?
La giovane Repubblica indipendente del Caucaso non è una democrazia ideale, si sottolinea con sospetta insistenza da quando essa ha perso - guai ai deboli e ai vinti! - il 20 per cento del proprio territorio (internazionalmente riconosciuto), che di fatto il suo imperiale vicino si è annesso. Ciò non toglie che, fra tutti i Paesi dell'ex Unione Sovietica, la Georgia sia fra i pochi ad offrirsi elezioni oneste (controllate dall'Ocse) e a tirare il collo alla corruzione generalizzata, inguaribile eredità del comunismo reale (il suo sforzo è acclamato dalla Banca Mondiale e da Transparency International). Poiché i quattro milioni di georgiani, in grande maggioranza, si sono ripromessi di non tornare nel girone della Santa Russia, il Presidente «Misha», che si schiera con loro, ha certamente perso la testa. Solo un «malato mentale» può immaginare che un piccolo popolo voglia scegliere i propri amici e vivere libero all'ombra di un impero trentacinque volte più popolato; un impero che crede ancora d'essere la seconda potenza mondiale e calpesta come fossero carta straccia gli accordi di cessate il fuoco firmati con Sarkozy, allora Presidente dell'Europa.
Bisogna stare attenti a non ridurre la questione a una lite di egocentrismi fra leader moscoviti e georgiani; piuttosto, dobbiamo scorgervi una strategia tipicamente russa per uscire dalla crisi. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, Stalin governava un Paese esangue e devastato, ma lungi dall'implorare aiuto e di fingersi diverso da quello che era, tirò fuori gli artigli e assoggettò mezza Europa. Putin non è Stalin, ma ne coltiva qualche riflesso. Indebolito dalla crisi mondiale, con le rendite in petroldollari che si prosciugano, avrebbe potuto moderare i suoi bollenti spiriti. Invece no, insiste, si dice capace di rieducare la vecchia Europa e di ammaestrare il giovane Obama. Lancia minacce sul gas, fa ricatti servendosi dei missili Iskander, effettua manovre militari con Chavez, consegna una centrale nucleare e missili anti-missili all'Iran... Dopo aver valicato con le armi frontiere internazionali di un Paese - grande esordio dopo l'Afghanistan -, dopo l'invasione e l'annessione di due province georgiane («un guanto gettato apertamente in faccia al leader globale del mondo», cioè l'America), i padroni del Cremlino, in barba a impotenti osservatori europei, schierano truppe, carri armati e missili. Eppure, sono loro a sentirsi provocati quando la Nato conferma manovre militari previste da 2 anni.
La Russia predilige gli uomini forti, Putin si addestrò radendo al suolo la Cecenia. Medvedev deve forse dimostrare la propria virilità, tentando di riconquistare il Caucaso? Il «liberale» di questa coppia conta sui sentimenti ameni che l'Occidente gli manifesta per assestare il colpo finale al «laureato di Harvard» (cioè l'uomo degli americani), abbastanza annebbiato da tentare di includere il proprio Paese fra le democrazie. È la favola del vaso di terra contro il vaso di ferro, di una lotta impari. Chiediamo informazioni a Bukowski e a Gluzman, autori del «Manuale dell'internato psichiatrico in Urss», che assaporarono i trattamenti molto speciali negli asili psichiatrici del Kgb. Ecco il riassunto della loro «follia»: resistenza «paranoica» agli organi onnipotenti dello Stato e sogni «schizofrenici» di libertà. Ancora oggi, è «folle» chi resiste. Non dimentichiamo in quale scuola furono formati Putin e la maggior parte di coloro che lo circondano. Quella «pazza» di Anna Politovskaia, la mia amica assassinata, mi aveva prevenuto: «Non perdoneranno mai l'affronto della Rivoluzione delle Rose».
È così che il culto della derisione equivale, in un regime democratico, al permesso di assopirsi e, in un regime autoritario, al permesso di uccidere.

(Articolo di André Glucksmann. Traduzione di Daniela Maggioni)

 
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eco di stampa di André Glucksmann (Filosofo e scrittore)





 
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