The Second Renaissance
     
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 Il pericolo dell'altro_06


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Philippe Sollers. Come penna un oscillografo dell'inaudito


  
 
Notazioni

I critici non gli hanno certo risparmiato le stilettate più caustiche fin dalle pagine che ha composto giovanissimo. Ma lo scrittore francese Philippe Sollers (Bordeaux, 1936), già elogiato da Mauriac e Aragon, un grande «avvocato» lo ha avuto e si chiama nientedimeno che Roland Barthes.
In realtà Sollers è uno pseudonimo latino (vero nome Philippe Joyaux) che richiama l'idea del «tutto in arte». Laureatosi in Scienze economiche, innamorato dell'Italia e specie di Venezia, ha sposato la famosa psicoanalista e scrittrice Julia Kristeva, ma è sempre rimasto molto legato anche ad un'altra scrittrice, Dominique Rolin. Contro le scuole e le accademie, ma anche contro le mode e le tendenze «politiche» ad assoggettare l'arte a questo o quel movente ideologico, è stato prima per l'avanguardia e poi si è spinto ben oltre l'avanguardia.
Di formazione hegelo-marxiana originalmente rielaborata, brillante interprete dantesco, nel 1960 è stato il fondatore delle rivista anticonformista «Tel Quel» - che avrebbe avuto ventidue anni di fervida attività, anche grazie a spiriti come Derrida, Lacan, Jakobson e lo stesso Barthes - e poi, esaurita quest'eccezionale esperienza culturale, anche della rivista «L'Infini» (1983). Proprio dalle righe di «Tel Quel» Sollers lanciava un monito: il libro, per non cadere nella trappola tesa da sé a se stesso, deve «situarsi in uno spazio che a esso solo appartiene» in quanto esso solo può decidere cosa sia bene e cosa male, cosa giusto e cosa ingiusto, cosa vero e cosa falso. Per questo non ha senso parlare di realismo in letteratura: una chimera bell'e buona. La realtà è un sistema in movimento con le sue regole; la letteratura è chiamata a scavalcare o anzi ad anticipare quel sistema.

Spericolato sperimentalismo
I libri di Sollers non sono mai passati inosservati: i romanzi Lois (Leggi) e H, entrambi del '72, insieme a Paradis (Paradiso, 1980) rappresentano le frontiere di quella che potremmo definire la "scrittura spericolata" del libertino Sollers.
Il romanzo-scandalo Femmes (Donne), avventura insieme erotico-passionale e intellettuale ambientata tra Europa e Stati Uniti, è del 1983: protagonisti ne sono il sesso estremo e - più in profondità - le complesse dinamiche relazionali uomo-donna e la riluttanza a qualsivoglia regolamentazione morale/moralistica. Siamo d'altra parte d'accordo con Oscar Wilde nel dire che non esistono libri morali o immorali, bensì solo libri che sono scritti bene o scritti male.
I racconti e romanzi sollersiani nascono sia dalla provocazione a sfondo psicoanalitico, volentieri di natura autobiografica e comunque sempre di ricerca sulla soggettività, sia da una sorta di istituto di "rivoluzione della pratica narrativa". È così per il racconto d'esordio, Le défi (La sfida), uscito nel 1957. È così per i romanzi: il primo ('58) intitolato Une curieuse solitude (Una curiosa solitudine), poi Le parc (Il parco) del '60, dove domina la presenza dei pronomi personali al posto dei personaggi, poi ancora Drame (Dramma) del '65 con lo strapotere del linguaggio per il linguaggio. Ma in generale è così un po' per tutti i titoli di Sollers: Portrait du joueur (Ritratto di giocatore, 1984), Le coeur absolu (Cuore assoluto, '87), La fête à Venise (La Festa a Venezia, '91), fino ai più recenti Passion fixe e L'étoile des amants, rispettivamente del 1999 e del 2002.
Collaboratore di «Le Monde» e anti-intellettuale molto in vista nell'ambiente parigino, anzi spesso bersaglio di feroci critiche da parte dell'opinione pubblica oltre che, come detto, dei critici stessi, Sollers è soprattutto un grande sperimentalista della lingua. In questo egli si fa, come ha scritto Gabriella Bosco, «strumento della scrittura che lo abita», che è la sua alterità, che quasi diabolicamente lo possiede. Lo possiamo mettere allora accanto a Paul Eluard (vedi Rocca n. 7/2006), anche se qui lo sperimentalismo è di segno diverso.
Pur di sperimentare qualcosa d'altro rispetto al falso mito occidentale della linearità narrativa e pur di innovare continuamente il codice letterario, Sollers ricorre tanto all'immaginario delle fiabe che al linguaggio pubblicitario. Affascinato dalla componente umoristica di quel «non essere» che vive di una «necessità inaudita di essere detto», anche come saggista l'autore francese ribadisce la propria avversione alla modalità tradizionale di scrivere e di leggere l'opera letteraria. Se con Nombres (Numeri), nel '68, arriva a dichiarare defunta ogni possibilità di rappresentazione da parte della narrazione, alla raccolta di saggi Logiques (Logiche) apparsa nello stesso anno affida il compito di chiarire ulteriormente che non può darsi una letteratura «sensata» e che non sia pronta a mettersi in discussione.

Con gli occhi di Barthes
Ma torniamo a Barthes. È del resto un'opportunità troppo preziosa quella di leggere Sollers con gli occhi di Barthes per lasciarla sottotraccia. Riandiamo allora a quei saggi che Barthes ha dedicato all'amico nel periodo compreso tra il 1965 e il '78. Egli, pur riconoscendo il rischio dell'esito mistico, vede nelle pagine di Sollers «gli eccessi di un oscillografo (nunzi dell'inaudito)» che ci restituiscono la materialità pura della lingua. Innanzitutto Barthes coglie un aspetto essenziale della ricerca estetica di Sollers: non si tratta di rinnovare la lingua quanto piuttosto di rovesciarla scrostando tutti i linguaggi, come pure non si tratta solamente di revisionare il modo di scrivere, ma di ridefinire la realtà, lo scrittore e il loro reciproco rapporto. L'attenzione maggiore è concentrata su quella rivoluzione letteraria, ma meglio dovremmo dire «aletteraria», che è H. Quest'opera di Sollers è non a caso il paradigma della sua estetica militante: il linguaggio è così parcellizzato, frammentato e frantumato che l'intero libro - attraversato da un flusso ininterrotto di parole senza punteggiatura alcuna - risulta una serrata decostruzione della frase e appunto del senso di ogni frase. Praticando questo «processo alla Frase», H inaugura la tendenza sollersiana a fare a meno di qualsiasi elemento crono-logico-narrativo e di ogni norma o vincolo espressivi (punteggiatura, capoversi, maiuscole...).
Anche Dramma e Paradis si spingono sino all'estremo dell'esprimibile. Il primo, attraverso una lacerazione del sistema simbolico tipico dell'Occidente moderno (narcisistico) e una rettifica radicale del linguaggio che si fa corpo obliquo, mette in atto una narrazione pura, migrante e senza storia, caratterizzata da un «io senza persona» che invade e colma di sé l'intero libro. Il secondo «è come lo schermo televisivo - scrive in Alle spalle (1973) Barthes con un'immagine che trovo straordinaria - prima che la rappresentazione si fissi: è il momento in cui [...] la sacrosanta immagine viene interrotta (forse per un temporale) e la superficie opaca vibra carica di elettricità, abbaglia, crepita, fa da diga alla metafisica».
L'effetto è, da una parte, quello di una scrittura a flusso continuo, quindi dinamica, aperta e che si fa pulviscolo per risalire alla «frontiera della parola» poiché di fatto precede la coscienza e la rimemorazione, il segno, la significazione e la rappresentazione; dall'altra, quello di una sorta di epoché del linguaggio, di una singolare sospensione di ogni tipo di espressione. Anzi, le parole precedono e provocano esse stesse l'esistenza delle cose! Tutto ciò non può che farci tornare presente il Bachelard della rêverie (vedi Rocca n. 12/2007) e confermarci che Sollers è originalissimo artefice di un'estetica senza basamento, ma non nel senso che non ha fondamento, bensì nel senso che contesta ogni fondamento. Davvero una bella sfida al lettore, invitato a porsi, diciamo ancora con Barthes, alle spalle dello scrittore come per scrivere insieme a lui.

(Giuseppe Moscati)

 
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