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«Crisi? L'Europa non si salva a colpi di burqa»


  
 
Notazioni

L'intervista - ALAIN FINKIELKRAUT

Davanti a questa crisi economica e, perché no, morale, un cosiddetto «filosofo di destra» commenterà: «Va bene, certi individui criminali hanno perseguito il loro losco interesse, il capitalismo non ha fatto una bella figura, ma ora vediamo come aggiustare le cose e uscire da questo disastro». Un cosiddetto «filosofo di sinistra», invece, replicherà: «È tutto da rifare. Il capitalismo ha le proprie colpe scritte nel Dna e non passa un decennio che non solletichi i peggiori istinti dell'uomo. Occorre una rivoluzione nella struttura sociale, soprattutto del ricco Occidente». Tra queste due posizioni ci sono ovviamente numerose sfumature, e una si chiama Alain Finkielkraut, di cui Lindau ha appena riedito L'umanità perduta. Saggio sul XX secolo. Il filosofo francese - autore di Noi, i moderni, il livre de chevet di tutta un'intellighenzia conservatrice - tiene d'occhio l'Europa ogni giorno dalla sua scrivania di Parigi, ed è da questa «centrale operativa del pensiero» che ci ha dato una panoramica della situazione.

Monsieur Finkielkraut, lei è autore di «Che cos'è la Francia?» Le chiedo: che cos'è l'Europa? Sembra che ci sia stata un po' di confusione da parte della Comunità su come affrontare la crisi.
«Nella fase iniziale questo può essere stato vero, ma ritengo che alla fine l'Europa abbia trovato una solidarietà reciproca sufficiente per affrontare la situazione. Alcuni Paesi che hanno tentato una politica protezionistica che li avrebbe allontanati dal resto della Comunità - l'Irlanda, per esempio - sono stati additati come reprobi. I premier dei Paesi europei hanno lavorato bene, anche se per alcuni di loro, Sarkozy per esempio, si comincia a vedere uno scollamento tra potere politico e potere sociale».
Pensa che questa non sia soltanto una crisi economica, ma anche di valori?
«C'è stata ovviamente una sconsiderata finanziarizzazione del capitalismo. Detto questo, non era solo il capitalismo a essere abituato a una libertà senza limiti, ma l'intera nostra società. Occorre reimparare l'autoregolamentazione, a livello individuale come a livello pubblico. Ma ancora non so se riusciremo a uscire dalla crisi senza mettere in pericolo, nel complesso, quel molto che ancora di buono c'è nel nostro modo di vivere, valori compresi. Oltretutto, dietro alla crisi, leggo anche il segnale di un'importante problema ecologico, che occorre affrontare con maggior decisione».
Crede che si stia abbandonando il culto del progresso e del lavoro a favore di un presente richiuso su se stesso, egoista?
«Oggi è molto difficile credere nel futuro. Non possiamo più cullarci nell'idea di progresso, perché la storia non ci promette più niente. Tuttavia - e da qui deriva la nostra tensione anche spirituale - non possiamo trascurare l'avvenire. Perché l'avvenire, semplicemente, è ciò che lasciamo ai nostri figli, ai nostri nipoti. So che il futuro non è più promettente come lo era per gli esseri umani che ci hanno preceduto e che questa mancanza di promesse pesa sul nostro animo. Ma, come dice Albert Camus, "dobbiamo impedire che il futuro venga sfigurato dal presente"».
Ma per fare ciò occorre ricominciare a trasmettere valori. Sempre che ci siano...
«Più che di valori, parlerei di realtà sostanziali. Di contenuti, di opere. Di cultura. Ma oggi non si parla più di trasmissione, bensì di "comunicazione". Ha notato come i libri sono sempre più trascurati? sono diventati obsolescenti. Al posto di "libro" si parla di "supporto cartaceo", non si dice più "un'opera". L'opera di un artista o di un filosofo è un orizzonte culturale e dell'anima, nel quale si può crescere. Si sta abbandonando questa dimensione».
Irrevocabilmente?
«Non lo so se è irrevocabile. Viviamo in un periodo di cambiamento dove la tecnica si coniuga con la democrazia. Ma quando la democrazia esce dai suoi ambiti politici, quando tutto si democratizza, ecco che si spezzano le gerarchie istituzionali e la cultura diventa incredibilmente fragile. La riprova è che oggi tutto è "cultura". Non c'è manifestazione o aspetto umano che non sia "culturale". E questa è una china molto pericolosa».
Che porta alla fine della storia, come voleva Fukuyama. A una società indifferenziata e amebica, senza veri "eventi".
«Preferisco pensarla, qui, come Marx: la storia ha più immaginazione di tutti noi. Per dire che la storia è finita, come fanno certi filosofi, bisogna avere una filosofia della storia, bisogna pensare che sia possibili inglobare la pluralità umana. Per Hannah Arendt la pluralità umana altro non è che la diversità di ciascuno rispetto all'altro, e il continuo ripresentarsi di uomini e generazioni sulla scena del mondo. Ci saranno sempre nuovi esseri umani, e questo, per me, cassa l'ipotesi di una fine della storia».
Ma il problema demografico esiste. La natalità, almeno in Europa, è parecchio bassa.
«In questo la penso come Lévi Strauss: la terra non è abitata insufficientemente. Il vero problema dell'Europa è non ridurre i propri retaggi storici, politici, culturali. Dobbiamo uscire da questa crisi senza svendere i nostri valori. Avremo la forza di farlo?».
A proposito, il problema del burqa in Francia può essere paradigmatico.
«Alcune deputate francesi stanno pensando a come reagire. Penso che la risposta debba essere molto ferma e che non debba giocarsi sul piano "culturale" dei diritti dell'uomo, altrimenti sarebbe facile arrivare all'impasse che le donne "hanno il diritto" di mettersi il burqa. I diritti "culturali" dell'uomo a difendere la propria identità sono una cosa, ma qui stiamo parlando d'altro. L'Europa non deve rinunciare a difendere se stessa».
Abbiamo in questo delle resistenze interiori...
«Siamo preda dei nostri crimini passati. Per fortuna il colonialismo l'abbiamo alle spalle, ma ancora quando si parla di memoria europea si intendono solo i crimini che abbiamo commesso. È chiaro che non voglio in alcun modo negare o difendere tali crimini. Ma dobbiamo trovare una via per sottolineare tutte le grandi cose e i grandi risultati che l'Europa ha ottenuto».
Come la "mixité"...
«La compresenza dei sessi in vari ambiti sociali, come le classi miste. Questa compresenza è l'opposto della segregazione femminile, l'opposto del burqa. Il meticciato non deve essere un modo per rinunciare a questa mixité».
Si andrà verso il conflitto sociale? Lei parla spesso di risentimento.
«Perché è una delle caratteristiche principali dell'animo moderno. Vede, l'uomo non si ferma davanti a niente, vuole plasmare il mondo, sottometterlo. In questo c'è anche una creatività enorme, ammirevole. Ma nel contempo si rischia di avere una specie di unione disastrosa tra la tecnologia - che l'uomo usa per affrontare e modificare la natura - e la vita originale, un dono di Dio. Che ne sarà dell'uomo se egli stesso diventa il creatore di sé? Perderà la gratitudine».
E guadagnerà in risentimento...
«Sì. La religione celebrava questa gratitudine, non verso il donatore, o non soltanto, ma verso il dono in sé, verso la vita. Anche la poesia celebrava questa gratitudine. È interessante notare come oggi il trionfo del risentimento, dell'ingratitudine, della separazione, si traduce più nella scomparsa della poesia che della religione. Non sono convinto, infatti, che questa sia morta. È più probabile un ritorno della religione che della poesia». (Tommy Cappellini)

 
Relazioni
eco di stampa di Alain Finkielkraut ( )
Che cos'č la Francia? (Libro)





 
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