CONVERSAZIONE CON IL PREMIO NOBEL WOLE SOYINKA
Nella splendida cornice rinascimentale di Villa San Carlo Borromeo, alle porte di Milano, la casa editrice Spirali ha organizzato un incontro insolito, unico nella sua eccezionalità, tra un Premio Nobel della letteratura, il nigeriano Wole Soyinka, e l'Ambasciatore italiano in Nigeria, Massimo Baistrocchi.
Il romanzo Il castello e i suoi amanti (Spirali), scritto dal diplomatico dopo un lungo soggiorno in Namibia, è stato il punto di congiunzione tra queste due personalità diverse ma legate da una forte amicizia e dallo stesso amore per il continente africano. Nel libro - presentato, in questa occasione, nello storico Salone delle Feste - l'Ambasciatore Baistrocchi ha ricreato, con la maestria di un romanziere di lungo corso, la magica atmosfera del castello di Schwerinsburg, costruito in Namibia all'inizio del 900. Un racconto nel quale si intrecciano avventure misteriose, colpi di scena, passioni pericolose, frammenti di storia e vicissitudini partorite dalla fervida immaginazione dell'autore. Wole Soyinka - appositamente venuto in Italia per presentare il romanzo di Baistrocchi - si aggira nell'antica Villa con passo leggero. Di lui colpiscono la nuvola di capelli canuti, lo sguardo magnetico e l'enigmatico sorriso.
«Non è la prima volta che vengo in questa dimora. Ci ero già stato qualche anno fa per ricevere un premio» spiega Soyinka, divertito dalla coincidenza. «Questo mio soggiorno milanese è dunque, in un certo senso, un ritorno inaspettato...» E Oga, "il capo" - come viene chiamato con rispetto nel Paese natio - è estremamente sensibile ai doni del caso, ai luoghi nei quali ha lasciato un pezzetto di sé. La sua vita è infatti in continuo movimento, un viaggio incessante. Soyinka, oggi settantacinquenne, vive tra la California e la Nigeria. Appena può, si rifugia nella sua casa natale, ad Abeokuta - una città del sud-ovest della Nigeria, a un'ora soltanto da Lagos - dove riposa le membra e lo spirito. «Si tratta di una casa immersa nella natura», in simbiosi con l'ambiente. Lo scrittore l'ha ideata in tal modo da lasciare che la foresta, «con il suo respiro furtivo», vi penetri. A volte gli animali si avvicinano, ingannati dalla struttura semi-aperta della dimora, nella quale, in certi punti, la vegetazione ha sopraffatto i muri. Prima ancora di evocare il suo percorso letterario e politico, Soyinka parla infatti della rigogliosa natura della sua Nigeria, dell'arte della caccia, che pratica da sempre, delle sue solitarie escursioni all'alba o al tramonto. Si tratta di una fuga in «una dimensione senza tempo», «lascio che la foresta si impossessi di me». Soyinka si dice poco incline ai sentimentalismi ma la nostalgia sa renderlo estremamente sensibile. Ha una passione indomabile per la sua terra ma vanta un percorso internazionale, complesso, e un'anima eclettica. È un artista poliedrico: ha scritto poesie, drammi, commedie e romanzi. È considerato il maggiore drammaturgo africano e si è cimentato con il teatro di improvvisazione. «Ho varie identità. La mia identità primaria è quella yoruba. La mia identità politica è quella nigeriana e poi, infine, sono un africano...» spiega. Sono probabilmente il suo spessore umano e le sue numerose sfaccettature identitarie a rendere le sue opere così intense, così particolari. Ha ricevuto un'educazione cristiana ma la sua infanzia è stata anche arricchita dalle tradizioni dell'etnia youruba. Le sue opere teatrali hanno infatti dato vita a creature complesse nelle quali si fondono perfettamente miti universali e leggende africane. Tutto il suo percorso letterario è del resto improntato ad una creatività che non vuole conoscere confini, a sinergie artistiche e fortunati sincretismi. I suoi personaggi sono così abitati dalle contraddizioni dell'umanità ma sono anche profondamente africani. Nel 1960, dopo gli studi all'università di Leeds, in Gran Bretagna, Soyinka fa ritorno in Nigeria, Paese che, allora, è da poco diventato indipendente. Incomincia ad insegnare letteratura e teatro e fonda il gruppo teatrale "Le maschere 1960". Ma con quel ritorno in Patria comincia anche la sua militanza politica, la tumultuosa esistenza del Soyinka paladino della democrazia. La Nigeria è succube di una dittatura, la corruzione è endemica, gli spazi di libertà per gli artisti dissidenti sono estremamente limitati, quasi inesistenti. Il drammaturgo non esita a mettere la sua arte al servizio della lotta politica. Diventa rapidamente un instancabile difensore dei diritti umani, non esita ad insorgere contro ogni tipo di fanatismo e diventa un "pericoloso" fustigatore del regime militare che paralizza il Paese. Non si arrende davanti alla censura e usa le parole come armi taglienti, affilati coltelli. Attraverso le sue opere teatrali, cerca di promuovere idee rivoluzionarie, innovatrici, non smette di denunciare la tirannia, le ingiustizie, tanta di sensibilizzare l'opinione pubblica nigeriana ed internazionale. Per Soyinka, la creazione artistica non può dimenticare il suo dovere sociale, civico, la sua missione politica. Ne pagherà ovviamente il prezzo. Viene arrestato due volte. La prima nel 1964, la seconda nel 1968, accusato di sovversione per aver scritto un articolo nel quale chiedeva il cessate-il-fuoco durante la guerra civile, nota anche come la guerra del Biafra. I suoi interventi in favore della pace lo porteranno in carcere e a due anni di cella di isolamento, dove concepirà uno dei suoi capolavori letterari L'uomo è morto. Nel 1994, un tribunale nigeriano lo giudica e lo condanna a morte in contumacia. Lo salva evidentemente l'esilio. Dall'estero, Soyinka pensa alla sua patria martoriata, milita e soffre. Nel frattempo, la vecchiaia, la malattia o la mano feroce del regime fanno morire i suoi amici più cari. Progressivamente svaniscono i suoi punti di riferimento e la lontananza diventa un fardello sempre più difficile da sopportare. L'esilio è per lui una sorta di "morte simulata", un'esistenza in bilico, un surrogato della vita vera. Nel suoi libro autobiografico Sul Far del Giorno, scrive: «mi sono portato in testa la mia patria in modo tanto ossessivo, che adesso non sono in grado di percepire questo viaggio come la riconquista di un territorio perduto». Solo alla morte del dittatore Sani Abacha, nel 1998, Soyinka può tornare in Nigeria. Ma il ritorno è difficile. La sofferenza e i sensi di colpa gli hanno quasi atrofizzato il cuore e l'ormai Premio Nobel si sente "freddo come un cadavere", prosciugato da ogni sentimento, sgomento per la "freddezza clinica" dei suoi movimenti. Questa è forse la condanna dei coraggiosi, di tutti coloro che non possono fare a meno di lottare per i loro ideali e di pagarne le conseguenze. Ideali che Soyinka ha ben in mente fin dall'infanzia. Ha infatti imparato presto il valore della giustizia e il peso dell'iniquità. Bambino, viene involontariamente coinvolto nel movimento di donne di Abeokuta, guidate da una sua zia temeraria; il movimento organizza una protesta contro i soprusi del despota locale, il signore del feudo. E trionfano: questi sarà costretto ad abdicare. Il piccolo Soyinka ha imparato la lezione. A scuola si dimostrerà intollerante davanti al bullismo che colpisce alcuni suoi compagni più deboli e, più tardi, insorgerà contro ogni espressione di razzismo ed ogni forma di colonialismo. «La giustizia è la prima condizione dell'umanità», ama ripetere. Una giustizia che deve essere "globalizzata, universale". Per il drammaturgo, anche la «politica ipocrita di George W. Bush» è fonte di iniquità, di sofferenza, e per questo motivo non esita a condannarla. La visione di Soyinka abbraccia pertanto il mondo intero ma si concentra ovviamente sul suo continente natio, l'Africa. Un continente martoriato da dittature, guerre ifrastatali, autoritarismo feroci, ineguaglianze e miseria. Tuttavia precisa: «La povertà non può essere un alibi per l'inazione. Dopo la fine della guerra fredda, l'Africa è entrata in una nuova era. Ci troviamo in una congiuntura favorevole: questo è un buon momento per imparare a gestire con intelligenza, e autonomamente, le nostre risorse umane e materiali. Dobbiamo imparare - sfruttando anche la presenza cinese in Africa, fonte di instabilità ma anche di nuove opportunità - a promuovere meglio le nostre ricchezze». La strada è lunga, «la responsabilità primaria è locale, è africana,» afferma. «Se poi gli Stati africani dovessero fallire nei loro intenti, allora è giusto che la comunità internazionale intervenga». Soyinka evoca ovviamente l'attuale crisi nel Darfur ma non si sofferma troppo sull'argomento. Perché l'Africa ha, per lui, il volto del sanguinario Omar al-Bashir ma anche quello di Julius Kambarage Nyerere, il presidente che dal 1964 al 1985, ha guidato la Tanzania, un leader onesto, buono, giusto, di cui si parla poco. «L'Occidente vede solo una piccola porzione del continente africano, percepisce solo il peggio e non si rende conto che l'Africa è molto, veramente molto di più!» [...]
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