Riconoscersi nella diaspora. Pensare che la condizione dell'esilio sia l'essenza stessa dell'ebraismo. E che l'idea messianica di un mondo più giusto sia l'unica, vera possibilità di essere moderni. Perché per vincere la scommessa di vivere servono due cose: impegno e responsabilità
"Sono un ebreo della galut. Sono un ebreo che per anni e anni, ha riflettuto sulla questione della diaspora; non esattamente per riabilitarla, non ne faccio una metafisica dell'esilio e tanto meno prendo le distanze da Israele, che amo con tutto il mio cuore, di un amore incondizionato. Piuttosto faccio una considerazione sull'essenzialità dell'esilio, senza redenzione o ritorno, che è proprio ciò che mi sembra voglia dire essere Ebreo. Sono ebreo da parte di madre e di padre. Sono un ebreo che ha 'attravesato' filosofi come Lévinas, Buber e Rosenzweig. Sono un ebreo perché essere ebrei significa amare la Legge più della Terra e le lettere tanto quanto lo spirito". A parlare così è uno dei maître à penser più celebrati, chiaccherati, contestati di Francia, laureato alla Ecôle Normale Superieure di Parigi, filosofo, scrittore, romanziere, giornalista spesso provocatorio, cineasta, fondatore della rivista La Règle du Jeu, editorialista del settimanale Le Point, dove commenta, ogni settimana, l'attualità politica, artistica e culturale. Bernard-Henri Lévy, o semplicemente BHL, vive in uno stato di perenne crociata. Un vero amante delle barricate intellettuali. Non a caso, del resto, la sua opera è da sempre dominata dall'idea del Male. E il XX Secolo non è forse il secolo del Male? Fascismo, totalitarismo, terrorismo, integralismo, non sono forse i volti successivi di questo Male? E poi impegno, diritti umani, la tradizione tipicamente francese di unire l'azione militante alle idee. Come già Malraux, Sartre e Camus, anche BHL non sta fermo un secondo. Dai suoi primi reportage in Bangladesh per il quotidiano Combat fino alla sua inchiesta, in Pakistan, sulla morte di Daniel Pearl, passando poi per i numerosi viaggi nella Sarajevo accerchiata dalle milizie serbe, o per aver affrontato le "guerre dimenticate" come quelle d'Africa, Lévy non smette di mettere pensiero ed energia al servizio di cause che ritiene giuste. "Dov'erano i manifestanti quando si trattava di salvare, non gli 888 (palestinesi), ma i 300.000 morti dei massacri programmati del Darfur? Perché nessuno protestava nelle strade quando Putin radeva al suolo Grozny e trasformava decine di migliaia di ceceni in tiro al bersaglio? Perché hanno taciuto quando, tempo prima, e per anni, e stavolta nel cuore stesso dell'Europa, sono stati sterminati 200.000 bosniaci, il cui solo crimine era quello di essere nati musulmani? Per alcuni, i musulmani sono buoni solo quando sono in guerra con Israele. Eccoli i nuovi seguaci del due pesi, due misure che si preoccupano della sofferenza di un musulmano solo quando possono attribuirne la colpa agli ebrei. Mi si permetta di considerare questo doppio atteggiamento ripugnante e frivolo. Io ho manifestato per il Darfur, per la Cecenia e per la Bosnia. Mi batto da 40 anni, per un valido stato palestinese accanto a quello di Israele". Così dice (e scrive) il filosofo francese. Ed è forse in questo senso di equanimità, di bilanciata giustizia, che Lévy riconosce i tratti del proprio modo di appartenere all'ebraismo: "Credo in un Ebraismo che mi renda responsabile nei confronti degli altri e in un certo senso una specie di loro custode; credo in un Ebraismo che si definisce come Etica. Ma che diventa tale solo nel momento in cui vedo al di sopra del mio Io un Tu che mi domina dall'alto della Sua Santità". Incontro Lévy in una serata di gala a Milano, allo Spazio Krizia, in occasione del premio ricevuto come Uomo dell'anno dagli Amici del Museo di Tel Aviv. La premiazione è avvenuta proprio in concomitanza con la firma, da parte di Lévy del regista Claude Lanzmann, dell'appello internazionale contro la candidatura del ministro della Cultura egiziano, Farouk Hosny, come direttore generale dell'Unesco, colpevole quest'ultimo di forti pregiudizi antisemiti e antiisraeliani. Un appello oggi sottoscritto anche dal Nobel Elie Wiesel, premiato anch'esso dagli Amici del Museo di Tel Aviv nel 2005. Lévy mi parla a lungo del suo rapporto con Israele e della sua preoccupazione: "Mai la malafede e la disinformazione verso Israele hanno assunto proporzioni tali come accade in questo momento: una macchina di delegittimazione e di satanizzazione che sta sfociando in un nuovo antisemitismo. Sono spaventato e allarmato". È in questa chiave di 'militanza filosofica' che sta forse tutto il sentimento ebraico di Lévy, nato nel 1948 a Béni-Saf in Algeria ma trasferitosi a Parigi alcuni mesi dopo la sua nascita (suo padre, André Lévy, fu il multi-miliardario fondatore di una famosa impresa di legname, la Becob). E non si può tralasciare nemmeno il percorso politico giovanile di Lévy, diventato famoso come il giovane fondatore della scuola della Nouvelle Philosophie, corrente animata da un gruppo di giovani intellettuali che esprimevano il rifiuto delle ideologie comuniste e socialiste intorno a cui erano scoppiati i tumulti del maggio francese, con un'agguerrita e severa critica morale. "Sono un ebreo che è non certamente politico (come potrebbe uno studente di Lévinas dimenticare la sua 'Politique Aprés'?) ma aperto al mondo e che considera il messianismo la base della responsabilità dell'uomo, di ogni uomo, nel lavoro della redenzione. Sono un ebreo universalista". Ma l'essenza del sentimento ebraico di Lévy è forse racchiusa nel suo bellissimo, toccante esempio di prosa giornalistica in Chi ha ucciso Daniel Pearl?. Quando i rapitori del reporter americano diffusero la videocassetta della barbara decapitazione di Pearl, nel 2002, il filosofo decise che, benché non lo avesse mai visto, avrebbe dedicato tutto il suo impegno a esplorare il mistero di quella morte così efferata. Le indagini lo portarono da Karachi a Londra, da Sarajevo a Dubai, da Kandahar a Los Angeles e di nuovo a Karachi. Questo viaggio ha dato vita a quello che lui stesso definisce un 'romanquête', un romanzo-inchiesta, con cui l'autore si addentra negli abissi del fondamentalismo islamico, per suggerirne una lettura appassionante. "Sono un ebreo quando, per un anno, mi sono messo sulle tracce di Daniel Pearl. E sono ebreo quando, a modo mio, modesto e secolare, ho provato a contribuire a santificare il suo nome". (Susanna Liscia)
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