Parlano gli scrittori cinesi Shen Dali e Dong Chun
Gli scrittori Shen Dali e Dong Chun si esprimono su passato, presente e futuro della Cina, dove capitalismo sfrenato e repressione delle libertà civili vanno a braccetto. Shen Dali è presidente dell'«Associazione degli scrittori cinesi». Nel 1990 è stato nominato Cavaliere delle Arti e delle Lettere dal Ministro della cultura francese. Attualmente è direttore delle tesi di dottorato all'Università di lingue straniere di Pechino. Dong Chun è stata docente per quasi trent'anni di lingue e civiltà straniere all'Università di Pechino. Giornalista e redattrice per Nouvelles d'Europe, ha lavorato a lungo a Parigi, dove, nel 1991, è stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica. I libri di Dali e Chun sono pubblicati in Italia da Spirali.
Vent'anni fa i massacri di Piazza Tienanmen. La Cina è difinita nei rapporti sulla libertà di stampa di Reporters sans frontières la «più grossa prigione per i giornalisti, blogger e cyber-dissidenti». Quanto è cambiata la situazione dall'89 ad oggi? Shen Dali: «Nel 1989, alla vigilia del 4 giugno, ero a Piazza Tienanmen. Sono un testimone diretto degli scontri di quei giorni. Con altri studenti, partecipavo ad un grosso movimento di contestazione giovanile che voleva condannare e colpire la corruzione dilagante del Paese. Ci opponevamo al Segretario generale del Partito comunista dell'epoca, Zhao Ziyang, un uomo opportunista e corrotto. Questo era lo slancio iniziale, il motivo primario del nostro movimento. Poi la gioventù è stata strumentalizzata dal potere, è diventata una sorta di merce di scambio nell'ambito di feroci lotte interne al Partito comunista. È stato un brutto episodio della nostra storia recente. Ricordo i morti per le strade, le intimidazioni dei soldati. I carri armati passavano nel mio quartiere, sotto le finestre di casa mia, e i militari sparavano sulla folla. Ma vorrei sottolineare che l'episodio Tienanmen è molto complesso, molto più complicato di quanto si creda in Occidente. Enormi progressi sono stati compiuti da allora. Durante la Rivoluzione culturale sono finito in carcere. Stessa sorte è toccata ai miei genitori e a mio fratello. All'epoca, nella Cina comunista imperversava una specie di "dittatura del proletariato". Mao Tse Tung era considerato un Dio. Un esempio: in quei tempi se si faceva cadere, per distrazione, anche una piccola statuetta che lo raffigurava, si rischiava la prigione. Imperversava un culto della personalità micidiale. Oggi, invece, beneficiamo di una relativa libertà di espressione. Insegno all'università e posso parlare liberamente di quello che voglio, posso criticare i nostri governanti e non finisco in carcere per questo motivo. Esiste la censura, ma colpisce in particolare i media. Nessuno, ad esempio, può formulare in televisione dei commenti critici nei confronti del governo. Non vi è libertà di stampa. E chi ha un progetto considerato "sovversivo" dalle autorità viene messo a tacere con la forza. Detto questo l'epoca delle persecuzioni spietate e sistematiche è finita perché non c'è più Mao e gli uomini politici attuali non hanno il carisma che aveva lui, non sono popolari e amati come lo era lui. La mia generazione si trova tra due fuochi. Abbiamo fatto la rivoluzione perché credevamo in una Cina libera, democratica, egualitaria. Ma il nostro Paese oggi non è all'altezza dei sogni che hanno ispirato il nostro movimento. E dall'altra parte abbiamo l'Occidente e i suoi ideali, un universo con tuttavia i propri limiti, i propri tarli, spesso colpevole di intolleranza nei confronti di questo Oriente che non sempre capisce, spesso reo di totalitarismo culturale. Bisogna anche ricordare che l'attuale regime mantiene la stabilità di un Paese che è per molti aspetti "esplosivo". Se il regime implodesse sarebbe terribile. Diciamo che le autorità politiche attuali rappresentano probabilmente il "meno peggio" al quale possiamo aspirare. Noi cinesi guardiamo spesso verso la Russia e, alla luce di quello che è successo in quel Paese ci diciamo: "non vogliamo fare la stessa fine dell'Unione sovietica». Dong Chun: «Ci sono dei miglioramenti ma la situazione attuale è preoccupante. Il capitalismo selvaggio cinese ha esacerbato le contraddizioni sociali. Disoccupazione dilagante, inquinamento, urbanizzazione selvaggia, crisi degli alloggi. Basta pensare al problema dell'urbanizzazione in provincia - situazione ben peggiore che in città - e il suo corollario di manifestazioni di abitanti disperati, innumerevoli suicidi, arresti. In provincia, la gestione del potere è spesso nelle mani di quelli che noi chiamiamo i "serpenti locali", despoti corrotti e disumani. Il progresso sta nel fatto che ora riusciamo a parlarne, a denunciare alcune situazioni».
Le università cinesi sono palestre di democrazia o chi vuole parlare di diritti umani lo deve fare dall'estero? Shen Dali: «Lo dicevo prima, oggi posso permettermi il lusso di formulare dei giudizi autonomi e critici e ciò nonostante continuo ad insegnare liberamente. Ovviamente la nostra università non è la culla della democrazia! E poi c'è democrazia e democrazia, ci sono diritti umani e diritti umani. Si tratta di espressioni vaghe, bisogna fare molto attenzione alle definizioni dei termini e dei concetti. In Cina si pensa spesso che la retorica dei diritti umani venga usata dall'Occidente - un Occidente che ha perso le sue colonie, la primazia economica, culturale del passato - come un'arma contro di noi. Troppo spesso Occidente e Cina non si capiscono, la nostra relazione è fatta di pregiudizi, stereotipi, pericolosi bracci di ferro». Dong Chun: «Spesso mi rivolgo ai miei colleghi ed amici europei e ricordo loro che in Europa la democrazia ha avuto bisogno di circa duecento anni per trionfare. Non dimentichiamo che la Repubblica popolare cinese è stata fondata nel 1949. Abbiamo ancora un po' di tempo per seguire le orme dell'Europa. Ogni popolo ha la propria storia, la propria civiltà, i propri ritmi. Bisognerebbe cercare di capire l'altro prima di dargli dei consigli. È una questione di tono, di dialettica, di comunicazione. Desideriamo collaborare con l'Occidente ma facciamo fatica ad accettare le ingerenze, spesso troppo aggressive, degli europei e degli americani. Le critiche troppo veementi nei nostri confronti non fanno altro che radicalizzare il potere autocratico di Pechino».
In Cina è stato creato un particolare modello economico-sociale: liberismo sfrenato in economia e controllo totale sulle libertà individuali. Una democrazia monca che ha favorito i mercati e la finanza, comprimendo i diritti degli individui. Si possono sacrificare le libertà in nome dei profitti? Shen Dali: «Non è possibile rinunciare alla libertà. Eppure oggi in Cina siamo schiavi dell'illusione del "Dio denaro". Tutti vogliono diventare ricchi. È un'altra forma di servitù, di avvilimento morale, di alienazione. In passato la figura veramente apprezzata, stimata era quella dell'intellettuale, del saggio. Oggi veneriamo i dirigenti di impresa che ostentano il loro potere e i loro beni. Si tratta di un doppio tradimento. Da una parte tradiamo i nostri valori, legati alla cultura del passato, all'eredità del confucianesimo, alla società di solidarietà che era la nostra. E poi assistiamo alle quotidiane violazioni dei diritti umani in questa società di mercato senza anima, per via di questo capitalismo cieco, di questo individualismo sfrenato».
Mr. Shen Dali, nel suo libro, "Gli amanti del lago", lei racconta la Cina ai tempi di Mao. Gli ideali della Rivoluzione culturale, diffusisi poi in tutto il mondo come una sorta di globalizzazione culturale ante litteram, sono ormai superati? Shen Dali: «La cosiddetta "Rivoluzione culturale" non ha partorito nessun ideale. Non si è trattato di una rivoluzione, ma di un movimento sociale controllato dalle alte sfere del potere, da Mao in persona. In realtà non era altro che una lotta per il potere all'interno del partito comunista. Non c'era nulla di "culturale" in questo movimento che, al contrario, ha voluto fare tabula rasa delle nostre tradizioni. Abbiamo assistito alla dittatura del proletariato, anni di veri disastri. Tutti i gruppi sociali hanno subito violenze e persecuzioni. Oggi, tuttavia, nessun dirigente cinese osa criticare questa deriva del potere di Mao. La Rivoluzione culturale è ancora un tabù e nessuno ha il coraggio di fare il processo alle follie sanguinarie di quegli anni». (Gennaro Grimolizzi)
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