Giacinto Spagnoletti fa un ritratto della poetessa Alda Merini nel volume: "I nostri contemporanei", edito da Spirali, Milano, 1997. Il ritratto è a pag. 133 e prosegue. È nella sezione dedicata a Milano e ha come titolo: "Alda Merini, vagabonda e mezza santa". Titolo curioso, ma non inopportuno. È un ricordo lucido, preciso nel risultato autobiografico della poetessa, ricco di osservazioni ambientali (nella Roma anni cinquanta) e, direi, mentalmente fotografico. Nel senso che mette a nudo il carattere, la passione fluviale che la Merini ebbe per la poesia che era per lei «un parlar poetando». Dopo una breve scheda biobibliografica che orienta il lettore sulla sua poesia, ma non ne spiega ancora il carattere, né il personaggio, e neppure il "sentire" una certa poesia. Avverrà qualche tempo dopo. Non fu facile, scrive Spagnoletti, "venire a conoscenza del fenomeno Merini, un fenomeno spinto dalla nevrosi dalla quale poi far dipendere il giudizio sulla stessa sua poesia". Certo i quasi venti anni di degenza in una clinica, o in una casa di cura milanese, costituiscono una lunga cesura che non è possibile ricostruire se non da racconti o dalle lettere che la stessa Merini volle inviare a Spagnoletti; a colui ce ancora giovinetta aveva per primo scoperto il suo geniale talento poetico; e che poi inserirà il nome della giovine poetessa nella famosa antologia pubblicata dall'Editore Guanda. Nel ritratto, edito da Spirali, Spagnoletti rievoca l'incontro romano della Merini che, accompagnata dalla madre, si era recata nella sede del settimanale "Democrazia" dove l'amico Angelo Romanò trascorreva i suoi pomeriggi. Era una fanciulla assai timida e silenziosa che cercava un posto da dattilografa. Che non venne, ma in compenso l'amico Romanò fece dono a Spagnoletti di un centinaio di poesie. Che il nostro critico giudicò tra sorpresa, curiosità e sbalordimento. "Era", scrive Spagnoletti, "una profluvie di versi da lasciare increduli". Una parte di quelle liriche prese poi corpo nel volume: "La presenza di Orfeo". Ma cosa era per la Merini la poesia? Ella scriveva come in "trance" tanto era la "copia" della sua ispirazione; ma la poesia era non solo il suo mondo recondito e travagliato quanto il vivere appassionatamente ogni momento dell'esistere. Pasolini e Betocchi compresero subito di trovarsi di fronte ad un intelletto singolare e geniale; Maria Corti, illustre italianista, la volle con sé, inutilmente. "Tutta la mia poesia" scrisse la Merini "la demandavo alla poesia". Che vuol dire e non dire nulla. "Dopo il primo matrimonio", scrive Spagnoletti, "aveva incontrato uno dei poeti religiosi più singolari, un valoroso medico, di prestigio indiscusso, che viveva a Taranto da tempo". Con lui si sposò e venne a vivere, per alcuni anni, nella città dei due mari. Qui contrasse amicizie di tutti i generi, con gente anche occasionale; finiva nei bar consumando lunghi pomeriggi e fumando quaranta o cinquanta sigarette. E la poesia? per Spagnoletti, sempre nel ritratto, «era una sovrana ossessione della mente. Era una singolare distonia nell'uso del verso endecasillabo, come verso-melopea. Un verso soggetto a salti fonici e verbali, a immotivate e ripetute trasfigurazioni verbali, quale un vento che distorce le parole». Ma l'armonia era tutto. L'endecasillabo tuttavia per lei fu una incantevole fissazione forse anche di natura traumatica. La sua devozione al metro classico prevedeva una comunicazione chiara, sicura, attendibile. "Rivedo le tue lettere d'amore / illuminata adesso dal distacco". Oppure: "Una forza stranissima s'insinua / nelle mie labbra docili e le incurva". Per Spagnoletti quello che fu definito «l'ermetismo» della Merini ha sempre le sue origini nella musicale astrazione dell'endecasillabo custodito come un amuleto. La Merini parlava in versi. Così si chiude il ritratto di Spagnoletti; un ritratto poggiato sulle "carte" e sulla conoscenza psicologica della geniale poetessa. Un ritratto dove la parola, del critico è pesata e storicamente accertata. La Merini, come il grandissimo poeta latino Lucrezio poetava, "per intervalla insaniae". Entrambi i poeti, pur con le dovute differenze e storiche e di creazione, volevano indagare il cuore umano dal loro cuore sofferente; e dalla loro mente misteriosa. Cercarono entrambi di conciliare la grandezza del creato nella piccolezza dell'uomo. Uno sforzo titanico. (Paolo De Stefano)
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