LO SCRITTORE DOMANI A TRIESTE Al Museo ebraico Carlo e Vera Wagner presenterà il suo romanzo "La regina di Saba" edito da Spirali
Nera e bellissima, era una delle donne più potenti del suo tempo. Capace di reggere i destini del suo popolo, d'inaugurare nuovi fiorenti commerci con genti straniere e d'intrattenersi alla pari con il sapiente Salomone. La storia della regina di Saba e il suo incontro amoroso con il re, eternato nei versi nel Cantico dei cantici, hanno stregato l'immaginazione d'intere generazioni. A riportarli in vita, muovendosi con disinvoltura tra la Bibbia, il Corano, il Libro dei re africano e le più recenti scoperte archeologiche, è il nuovo romanzo di Marek Halter. Intitolato "La regina di Saba", il libro restituisce al suo splendore il mito di Makeda, accompagnandola dall'infanzia al fatidico incontro con Salomone da cui, secondo la leggenda, sarebbe nato Menelik, il capostipite del popolo etiope. Lo scrittore, nato in Polonia da una famiglia ebraica, evaso con i genitori dal ghetto di Varsavia e animatore di molteplici iniziative a favore della pace in Medio Oriente, non è nuovo alla ricostruzione storica. Basti pensare ad "Abraham", la sua opera di maggiore successo, in cui ripercorre le vicende di una famiglia dall'anno 70, quando lo scriba Abraham fugge da Gerusalemme, ai giorni nostri in cui l'ultimo scriba, lo stesso Marek Halter, ne rievoca la storia. Ma ne "La regina di Saba" Halter sembra trovare una risonanza nuova e diversa nel narrare questa donna, bella come il sole, animata di sensibilità e inquietudini tutte contemporanee.
Marek Halter, qual è stato il suo primo incontro con la regina di Saba? «L'ho incontrata nel Cantico dei cantici, quando lavoravo alla mia serie sulle donne nella Bibbia. La sua figura mi ha attratto subito perché è la prima volta che si sente la voce di una donna. Quello tra lei e Salomone è un dialogo a cui entrambi partecipano. In altre parti del testo biblico si sente solo la voce degli uomini, che parlano anche per le donne. Un altro incontro importante è stato con il quadro di Nicholas Poussin che la raffigura accanto a Salomone. Poussin ritrae una regina dalla pelle candida». La sua regina di Saba è invece inequivocabilmente nera. «Questa raffigurazione mi ha colpito molto perché indice di una mentalità. Nel Cantico dei cantici lei infatti dice "sono bella e sono nera". Ma già nel quarto secolo il testo muta nella traduzione di San Gerolamo che scrive "sono bella ma sono nera". Si tratta della prima regina donna, nera e accettata da tutti i capi di stato del suo tempo. Un elemento di grande novità: oggi in Africa non vi è alcuna donna nella sua posizione. E solo da poco vi è un nero alla presidenza degli Stati Uniti... Mentre scrivevo il libro, Obama ancora non sapeva che si sarebbe presentato alle elezioni e che avrebbe vinto. Quando è stato eletto ho pensato subito alla mia regina. Ne ho parlato con il consigliere di Obama David Axelroth e devo dire che ha riso molto». Per ricostruire la figura di Makeda lei è stato a lungo in Etiopia. Com'è la leggenda vista da quell'angolo di mondo? «Oggi l'Etiopia è un paese meglio organizzato e più democratico di altri stati africani. Con la rinascita nazionale il mito di Saba, madre del progenitore Menelik, diventa sempre più forte: per noi è leggenda, per loro è storia. Poi c'è il nesso con l'ebraismo. Makeda si converte, Salomone invia in Etiopia dei sacerdoti per insegnare i riti ebraici e Menelik porta in Africa questa religione. È per questo antico influsso che ancora oggi vi è una presenza ebraica, i cosiddetti falascià, e molte chiese recano istoriate sulla facciata delle stelle di Davide». Lei ha vissuto sulla sua pelle l'esperienza di due regimi totalitari: prima il nazismo poi, dopo la fuga da Varsavia, il regime sovietico. Come valuta, alla luce di quest'esperienza, la rinascita di movimenti xenofobi o razzisti in tutt'Europa? «Nel mondo ciò che cambia è la tecnologia, non l'uomo. Siamo agitati sempre dalle medesime pulsioni di morte e dalla paura di ciò che diverso da noi. Sono sentimenti eterni che tendono ad accentuarsi nei momenti di crisi, quando temiamo che la nostra posizione sia messa a rischio dal vicino straniero, ebreo, nero». Dunque non c'è nulla da fare? «La prima cosa su cui lavorare è l'educazione. Se si conosce l'altro si ha meno paura e si può iniziare a interagire. Poi c'è la legge, che non distingue in base al colore della pelle o all'etnia e che va applicata con fermezza. Il resto arriverà con il tempo. Forse l'uomo potrà migliorare, ma è un cambiamento che avverrà molto dolcemente. La tecnologia è rapida, la psicologia ha ritmi assai più lenti». In questi anni lei si è impegnato con molte iniziative a favore della pace in Medio Oriente. In quest'area le religioni hanno assunto un peso sempre più preponderante. Quale può essere il loro ruolo sulla via della pace? «Credo che in questo senso la religione sia un ostacolo. Chi crede di avere Dio con sé è convinto di essere nel giusto e non ammette discussione: le guerre di religione sono sempre le peggiori. Finché le aspirazioni da parte israeliana e palestinese erano solo di tipo nazionale era ancora possibile trovare una composizione, oggi la situazione è diversa». Non c'è alcuna prospettiva di speranza? «Erodoto diceva che la differenza tra pace e guerra è che in pace i figli seppelliscono i genitori mentre nella seconda accade il contrario. La speranza è che un giorno gli israeliani e i palestinesi decidano di non voler più veder morire i propri figli in guerra che da lì si ricominci. In ogni caso sessant'anni di conflitto sono lunghissimi per noi uomini, ma in una prospettiva storica hanno un peso assai diverso: con ogni probabilità saranno solo poche righe nei libri di storia delle prossime generazioni». Un anno fa ha incontrato Khaled Meshal, uno dei leader di Hamas, suscitando molte polemiche. Perché l'ha fatto? «L'ho incontrato partendo dal principio che si parla con gli amici e non con i nemici. Quando Meshal ha accettato di parlare con me, scrittore ebreo, polacco, francese, pro Israele, ha messo il revolver da parte. Ci siamo avvicinati attraverso la parola e abbiamo condiviso un discorso in cui lui ad esempio ha parlato di Gilad Shalit, condividendo la pena della sua famiglia, o delle condizioni per un riconoscimento dello Stato d'Israele. È evidente che il nostro non era un tavolo di trattative. Ma da qui tutto è possibile». Un'allusione ad Ahmadinejad? «Chi vuol vederti sparire non ti parla. E non si può accettare chi, come Ahmadinejad, predica la distruzione d'Israele. Per me Israele, oltre a essere una realtà, è una necessità, una questione di giustizia. Ciò detto, non sono un cittadino israeliano, non voto lì e non sono obbligato ad accettare le politiche dei suoi governi: ho il diritto di esercitare la mia critica. Ad esempio avrei preferito un governo di coalizione che non si appoggi in questo modo ai partiti religiosi estremisti che stanno cambiando nel profondo lo spirito di un paese nato da un sogno di giustizia e di solidarietà». (Daniela Gross)
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