Che cos'è la psichiatria, oggi? Quale ruolo sociale riveste? Su quali scienze o saperi fonda la propria pratica? Quale definizione di malattia mentale la orienta e come essa la rielabora? Il dibattito epistemologico ed etico stringe d'assedio questi temi, imponendo un esame documentato e un dibattito culturale sui paradigmi di una disciplina che opera una preziosa ma difficile sintesi fra genetica e neuroscienze, psicologia e antropologia, farmacologia e psicoterapia. Su questo sfondo va letto il saggio, al solito provocatorio e graffiante, che lo psichiatra statunitense di origini ungheresi Thomas S. Szasz dedica alla scrittrice Virginia Woolf, morta suicida nel 1941. Nel volume Il mito della malattia mentale, che ebbe un'eco internazionale e fu oggetto di vivaci polemiche, Szasz aveva cercato di smontare le componenti extrascientifiche e i pregiudizi culturali, che a suo giudizio inficiavano la qualità e l'efficacia dell'intervento terapeutico, proponendo una teoria del comportamento individuale, analizzato secondo modelli linguistici, normativi e ludici. L'obiettivo era quello di rendere più complesso e sensibili l'impianto scientifico della psichiatria e di preparare una psicoterapia idonea alla conoscenza di sé e dei propri blocchi decisionali piuttosto che a «guarire da una malattia». Nella vicenda di Virginia Woolf, Szasz vede anzitutto un impasse morale: Virginia non si assunse la responsabilità di ascoltare e porre in comunicazione le diverse anime che vibravano nella sua persona. La frase «la mia follia mi ha salvato» (tratta da una lettera del 1924 al pittore Raverat) può venir letta come emblema del tremendo gioco nel quale ella apprese a utilizzare il ruolo di malata, l'autorità della psichiatria e persino la relazione matrimoniale, al fine di attingere valori che le parevano più importanti, come la potenza di una scrittura che aspirava a un riconoscimento universale. L'obiettivo era anzitutto quello di proteggersi da sguardi indiscreti, di non essere penetrata e contaminata nel corpo e nello spirito, una paura che caratterizzò l'intera vita della donna. «Virginia usò il matrimonio e la follia come maschere dietro le quali si nascose per meglio essere in grado di perseguire le sue ambizioni: scrivere, divenire famosa e essere lasciata in pace». (p. 164). Il costo pagato fu altissimo: il dolore di non avere figli, la carenza di un aiuto psicoterapeutico serio, la ripugnanza verso il marito Leonard (a lei culturalmente alieno e socialmente inferiore, trasformato in una sorta di infermiere mentale, anch'egli ricavandone dei vantaggi), la gestione autocratica ed egocentrica degli affetti, una stanchezza di vivere tale da indurla al gesto suicida. Per Szasz sarebbe riduttivo medicalizzare questo complesso disagio, etichettandolo sbrigativamente e organicisticamente come «psicosi maniaco-depressiva» o, secondo altre diagnosi, «schizofrenia». Due Appendici del testo sono dedicate alla contestazione della letteratura che qualificò la Woolf come «genio folle» e alla critica di certe forzate connessioni, di ordine genetico-biologico, fra i due caratteri: genio e follia, appunto. Studiosi di psichiatria e di letteratura potranno saggiare la pertinenza della ricostruzione di un itinerario umano e professionale, in cui la componente «folle» sarebbe scaturita, secondo Szasz, non dal di fuori o da un'impersonale base biologica, ma da un dilemma esistenziale irrisolto. (P. Cattorini)
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