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«Arabi e israeliani vivano in pace»


  
 
Notazioni

Lo scrittore francese Marek Halter auspica un'inversione di tendenza in Medio Oriente

Marek Halter è di nuovo in libreria con un romanzo appassionante: «La regina di Saba» (edizioni Spirali). L'intellettuale francese ha incontrato qualche mese fa Khaled Meshal, leader del movimento islamico Hamas, auspicando un dialogo tra israeliani e palestinesi. Un ruolo di mediatore, quello di Halter, che non deve apparire come una provocazione o un velleitario tentativo di far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti di popoli da tempo in guerra. Lo scrittore ebreo, infatti, già nel 1992 si attivò nell'organizzare gli incontri segreti tra israeliani e palestinesi, prima a Parigi, poi ad Oslo, ai quali parteciparono Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat.

Monsieur Halter, partiamo dal suo ultimo libro. Esiste oggi una "Regina di Saba"?
«Dopo aver reso la parola alle donne della Bibbia e a quelle dei Vangeli (i loro discorsi erano stati censurati dagli autori di questi bellissimi testi), ho pensato che fosse importante rendere omaggio al colore (della pelle) alla prima donna che è stata accolta nel Pantheon degli uomini politici: la Regina di Saba. Mi sono reso conto che tutti gli storici che hanno parlato di lei, tutti gli scrittori che l'hanno descritta, tutti i pittori che, da Fra Angelico a Veronese, l'hanno dipinta, tutti l'hanno immaginata bianca. Questo prova che il razzismo non è un'invenzione contemporanea. Coincidenza curiosa: quando ho finito il mio libro, Barack Obama ha presentato la sua candidatura per la presidenza degli Stati Uniti. La sua elezione ai vertici del Paese più potente del mondo rappresenta una sorta di riabilitazione di questa regina nera che controllava, tremila anni fa, una grande parte dell'Africa, compreso l'attuale Kenya, patria della famiglia di Obama. Per quanto riguarda le donne di potere di oggi, ebbene, sono numerose: Angela Merkel in Germania, Michèlle Bachelet in Cile, Cristina Kirshner in Argentina, senza parlare del ruolo svolto da Indira Gandhi, o da Tsipi Livni in Israele».

Lei è molto interessato alle vicende mediorientali. Come è nata l'intenzione di incontrare il leader di Hamas, Khaled Meshal?
«Parto dal principio che bisogna parlare con i propri nemici. Parlare con gli amici è cosa normale. Ma la guerra non si fa con loro. Credo profondamente che la violenza inizi là dove si interrompe la comunicazione. Dunque, laddove la parola è accettata, la violenza viene cancellata. L'ho potuto constatare con Yasser Arafat. Accettando di parlare con uno scrittore francese e ebreo e attaccato all'esistenza dello Stato d'Israele, ha fatto il primo passo verso i famosi accordi di Oslo, accordi di pace fondati sul principio dei sue Stati, fianco a fianco. Questo avrebbe dovuto realizzarsi se non ci fosse stata l'uccisione di Yitzhak Rabin. Khaled Meshal oggi, esattamente come Yasser Arafat ieri, stava aspettando che qualcuno venisse a parlargli. È stato fatto. In fondo non controlla la Striscia di Gaza? Durante la nostra conversazione mi ha detto che assicurava tutta la sua protezione all'ostaggio franco-israeliano, Ghilad Shalit, e si è dichiarato pronto a riconoscere la frontiera del 4 giugno 1967 con Israele. Un passo importante. Aspetto che lo ripeta in pubblico».

Il 2009 sarà un anno di svolta per i rapporti tra israeliani e palestinesi? Il rischio che nascano tre Stati per due popoli è ancora attuale?
«Sì, lo credo. E questo benché l'orizzonte sembri oggi ancora coperto. La crisi economica che attraversa il mondo giustificherà le pressioni economiche che saranno esercitate su Israele esattamente come sui palestinesi. Lei sa bene che l'Autorità palestinese vive unicamente grazie alle sovvenzioni dell'Ue. E Israele in larga parte grazie all'aiuto americano. La nuova amministrazione Obama è decisa a far progredire questo dossier. È centrale per la sua politica in Medio Oriente. Il mondo sunnita ha urgentemente bisogno della pace con Israele. Questa pace può aiutarlo ad evitare lo scontro con gli sciiti. La storia ci mostra che sono proprio degli uomini di destra in Israele che, davanti alle pressioni, hanno fatto il maggior numero di concessioni. Ci ricordiamo tutti dell'accordo tra Begin e Sadat, in nome del quale Israele ha reso all'Egitto tutti i territori occupati a seguito della "Guerra dei Sei Giorni". Ed è ancora il generale Sharon ad aver fatto evacuare, con la forza, gli insediamenti ebraici sulla striscia costiera di Gaza».

Negli ultimi mesi ci sono stati confortanti segnali di apertura da parte della Siria. Secondo lei, Bashar Assad svolgerà un ruolo importante per allentare le tensioni in Medio Oriente?
«Sì. Un anno e mezzo fa sono stato uno dei primi ad andare ad incontrarlo. Non è stato facile. La Siria si trovava sulla lista dei Paesi terroristi stilata dal Presidente Bush. Mi sono allora reso conto - e all'epoca l'ho scritto - che la Siria resta il solo Paese laico nel mondo musulmano e, in quanto tale, perderebbe di più cadendo sotto l'influenza dell'Iran che facendo delle concessioni per la pace con Israele. Bisognava proprio vedere queste giovani donne siriane, capelli al vento, jeans aderenti, mentre guardavano con terrore i gruppi di pellegrini iraniani nei quali c'erano anche numerose donne vestite di nero e velate. Dopo questo nostro incontro, Bashar el Assad è venuto a Parigi per assistere all'inaugurazione dell'Unione per il Mediterraneo, un'idea del presidente francese, Nicolas Sarkozy. La sera, al ricevimento ufficiale, ho cenato con lui, seduto al suo tavolo. Nel tavolo vicino cenava il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, e il suo ministro degli Esteri, Tsipi Livni. Non si sono parlati ma i sorrisi scambiati tra loro significavano molto».

Come giudica il nuovo corso aperto dal presidente americano Barack Obama?
«Penso che la politica dipenda molto dalle situazioni economiche, strategiche, psicologiche che, a volte, sfuggono alla volontà degli uomini. Un esempio: il terremoto in Italia. Ma credo anche che gli uomini politici dispongano della possibilità di individuare, o meno, le buone risposte alle crisi. Barack Obama ha una qualità necessaria ai grandi uomini politici: non solo sa ascoltare ma sa capire, non solo sa guardare ma è capace di vedere. Per il momento, i suoi passi in Europa come in Medio Oriente non sono stati vacillanti. Non ci ha del resto delusi neanche in occasione del recente vertice degli Stati d'America latina. Posso dirvi una cosa, e credo che la maggioranza dei vostri lettori sarà d'accordo con me: non rimpiango George W. Bush».

Gli Stati Uniti caldeggiano adesso l'ingresso della Turchia in Europa. Sarkozy è contrario. Quale è il suo pensiero?
«Che gli Stati Uniti abbiano interesse a vedere la Turchia - una grande nazione ma anche un loro satellite - entrare a far parte dell'Europa è comprensibile. In un certo senso vorrebbe dire avere un piede a Bruxelles, mentre l'altro è già in Europa grazie alla Nato. Se fosse per me, non mi affrettere troppo. Non ero del resto neanche troppo favorevole all'allargamento della Comunità europea verso l'Europa dell'Est. Non si invitano delle persone in una casa che non è ancora del tutto costruita. L'Europa non è ancora del tutto rifinita. Tutte le difficoltà che dobbiamo oggi affrontare sono la risultante di questa decisione affrettata. Un nuovo allargamento sarebbe un suicidio. Invece, accettare la Turchia come partner privilegiato è una possibilità che può benissimo essere presa in considerazione. Se me lo chiedessero, proporrei lo stesso scenario per la Russia. La sua cultura non è parte integrante della cultura europea? Senza parlare della geografia».

Lei ha vissuto in prima persona il dramma della Shoah. In Europa il germe dell'antisemitismo è stato sconfitto definitivamente?
«Purtroppo no. Andrò ancora più lontano, penso che non lo sarà mai. È così. Tutti noi siamo vagamente razzisti e vagamente antisemiti. Siamo gli eredi di millenni di pregiudizi. Le ho parlato del colore di pelle della regina di Saba. Coloro che hanno partecipato alla conferenza di Durban II, a Ginevra, hanno applaudito alle accuse antiebraiche del presidente iraniano, accuse elaborate da un certo Apione di Alessandria nel I secolo della nostra era. La cosa più straordinaria è che non sanno neanche chi è Apione. Credo profondamente che il rispetto dell'altro dipenda innanzitutto dalle leggi, dal sistema democratico che le applica, dall'educazione che le diffonde e dalla volontà di ognuno di noi di combattere in loro nome».

(Gennaro Grimolizzi)

 
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eco di stampa di La regina di Saba (Libro)
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