The Second Renaissance
     
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Una vita con l'incubo del Grande Tremore. Così ho costruito la mia casa anti-paura


  
 
Notazioni

di VITTORIO VOLPI

Quando incominciai a vivere in Giappone - circa 40 anni fa - fui sorpreso da una domanda che, spesso e in modo spiritoso, mi veniva rivolta: «Sai quali sono le cose di cui un uomo giapponese ha paura? Tre: la suocera, i terremoti e i tifoni». Abbozzavo con un sorriso di circostanza senza però capire. Io con la suocera ero in amicizia e non conoscevo né i terremoti né i tifoni. Nei Paesi dove avevo vissuto non avevo avuto esperienze.
Ma bastò poco per rendermi conto che, a parte il primo spauracchio, gli altri due erano davvero un pericolo latente per i giapponesi. Nei primi mesi della mia permanenza, appresi che prima o poi Tokyo avrebbe sperimentato il «Dai Jishin», il grande terremoto. L'ambasciatore italiano di allora invitava spesso i pochi italiani residenti a Tokyo per distoglierli dalla preoccupazione dell'evento che, per fortuna, non arrivava mai. Alla fine ci si dimenticò tutti della incombente minaccia. L'uomo impara sempre a convivere con ogni forma di pericolo e di situazione e a dimenticarli.
Ben presto feci la personale conoscenza con l'onorevole terremoto; a Tokyo non è, alla fine, così difficile sperimentarlo. Gli scienziati sottolineano che Tokyo è soggetta a circa 2 mila scosse annue di cui si avverte probabilmente solo l'uno per cento. Con il tempo le piccole scosse impari a sentirle dal posteriore, mentre sei seduto sulla sedia. Incominci ad alzare lo sguardo per essere più sensibile al fenomeno, poi incroci negli occhi il giapponese che ti sta di fronte e se percepisci segni di preoccupazione, vedi che gli si restringe la pupilla per meglio sentire, gatta ci cova. Non ti sei sbagliato. Con l'abitudine, la rassegnazione e, visto che finora sei sopravvissuto, con la speranza che nulla succeda, ti fai comunque coraggio. Quando invece ti accorgi - è facile - che il fenomeno anziché ondulatorio è sussultorio e dura più di un minuto, incominci a preoccupati molto seriamente.
Imparai presto che non era vero - come molti superficialmente sostengono in questi giorni - che i giapponesi siano freddi e razionali quando il terremoto incomincia a mostrare i suoi effetti. C'è molta distanza in loro fra quello che mostrano e quello che pensano: cosa che può confondere. La paura di terremoti, tifoni ed effetti collaterali come lo tsunami - termine di origine peraltro giapponese - è incapsulata nel Dna storico degli abitanti dell'arcipelago del Sol Levante: perché il loro Paese convive da migliaia di anni con queste sciagure naturali più di ogni altro cittadino del nostro pianeta. Questa volta Tokyo ha schivato il «Dai Jishin», l'epicentro nell'oceano è più vicino a Sendai e Fukushima.
Per l'ultimo vero disastro a Tokyo, bisogna risalire al primo settembre del 1923 quando la città fu rasa al suolo e patì più di 100 mila vittime per un terremoto di intensità 7,9 che durò quasi dieci minuti, una combinazione di tutto il peggio possibile: un tifone in arrivo, l'epicentro sotto le vicine isole di Izu Oshima, il conseguente tsunami ed il fuoco che lasciò quasi due milioni di cittadini senza tetto. Persino il grande Buddha di Kamakura - che non è a un passo da Tokyo - del peso di 93 tonnellate, fu smosso dalla sua sede. Solo i bombardamenti delle fortezze volanti americane, nel '45 verso la fine del conflitto, produssero danni comparabili. Si comprende quindi perché Tokyo sia una città nuova.
Quello che probabilmente nasconde ai nostri occhi il terrore dei giapponesi allo scoppio di un movimento sismico è il fatto che sono molto bene addestrati e preparati all'evento. Nelle aziende i «drills», per simulare il fenomeno, sono la norma. Per la casa, i «ku», i Comuni locali, hanno attrezzato di altoparlanti ogni quartiere, le scuole, gli edifici pubblici. Forniscono a casa gli equipaggiamenti per la sopravvivenza, rendono noti i punti di raduno, invitano a tenere sempre piena d'acqua la vasca da bagno giorno e notte. Insegnano regolarmente e sistematicamente come comportarsi, sotto cosa è meglio accucciarsi e da che cosa stare alla larga. Da buon italiano per me è sempre stata una cosa noiosa: come sentire le istruzioni della hostess sulle misure di sicurezza in aereo, una distrazione dalla lettura dei giornali. Ma per i giapponesi, per i ragazzini a scuola, è materia seria. E, quando succede, non sorprende vederli reagire con la massima conoscenza e disciplina.
Con questo non voglio dire di essere sempre stato, in trent'anni a Tokyo, disinteressato. Sono diventato molto attento dopo alcune esperienze spiacevoli. Quando all'improvviso la mia auto per la strada ondeggiava incomprensibilmente oppure il mio gatto spaventato incominciava ad arrampicarsi per la paura sui muri o osservando le oscillazioni di 50 centimetri dei muri in cima ad un grattacielo alto più di 200 metri. Ma, soprattutto, durante una visita a Kobe per scrivere per il Corriere un resoconto del terremoto del gennaio '95; disastro che causò 6.434 vittime, distrusse oltre 200 mila case, complice il fuoco alimentato dai forti venti del tifone.
Girando per la città semidistrutta, capii molte cose della politica edilizia nipponica e dei punti deboli della casa. Lo stereotipo che le vecchie case di legno sono resistenti, si dimostrò falso. Il tetto di maiolica è troppo pesante ed il legno prende fuoco; bella la casa tradizionale giapponese ma non con i terremoti. Poi le case senza fondamenta, come abbiamo visto anche in queste ore, non resistono allo tsunami e vengono spazzate via dalle onde. Ciò che resiste è la costruzione antisismica. E così costruii la mia casa. Fondamenta profonde una decina di metri, struttura della casa d'acciaio montata come un meccano, colonne imbottite di materia ignifuga e legno d'arredamento trattato anti-incendio.
Da tanto tempo non parliamo più del Giappone, che ho definito «il gigante dimenticato»; fa più effetto parlare di Cina o di Dubai. I media hanno molto rallentato la copertura del Paese. Peccato il doverci ritornare per una grande tragedia che ha colpito i nostri amici giapponesi con i quali, noi italiani che viviamo in un Paese pure vulcanico e ballerino, sentiamo molte affinità. Conoscendo attraverso l'esperienza pratica e la storia la loro grande capacità di reazione, la loro dignità nelle tragedie e nei dolori e la loro educazione nel fare squadra, sono certo che sapranno reagire con grande intensità; così come hanno saputo fare anche dopo aver patito l'unico olocausto nucleare di questo «pianeta di naufraghi».

 
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