Non era cominciata bene la vita di Alessandro Valignano. Nobile di nascita, questo sì, precoce laurea in «utroque iure», insomma diritto civile e canonico, a Padova, carriera ecclesiastica ben avviata perché papà era amico del severissimo papa Paolo IV. Però poi il Papa era morto, lui era tornato a Padova a fare lo studente scapestrato ed era incappato in una brutta storia, sfregiando con un coltello (se l'accusa e era vera) una donna dopo un feroce alterco. Era finito in carcere a Venezia, e ci era rimasto un anno e mezzo fino a che il cardinal Borromeo non era intervenuto presso nobili amici facendolo liberare dietro pagamento dei danni alla accusatrice. A questo punto Valignano aveva quasi trent'anni e non era nessuno. Ma proprio da qui comincia una avventura straordinaria, anche se spesso trascurata, perché Alessandro Valignano, nobile abruzzese, turbolento studente padovano, carcerato veneziano è il padre della grande tradizione missionaria gesuita in Asia. Certo, il suo allievo prediletto, padre Matteo Ricci, è diventato molto più famoso di lui, eppure è proprio di Valignano la grande intuizione che permise all'Occidente e al Cristianesimo di sbarcare e diffondersi in Cina e Giappone alla fine del cinquecento. Mentre l'abbandono delle teorie di Valignano comportò, in pieno seicento, la fine di queste esperienze asiatiche ed un nuovo isolamento tra occidente e oriente. Non a caso a riportare l'attenzione sul personaggio Valignano non è ora uno storico, ma un banchiere italiano, Vittorio Volpi, che ha trascorso molti anni di lavoro in Giappone scoprendo proprio lì la grandezza di Valignano, che i giapponesi non hanno dimenticato, e l'utilità di una lezione che in parte rimane valida, magari sul versante economico piuttosto che religioso. Così Volpi ha scritto un libro, «Il Visitatore. Alessandro Valignano, un grande maestro italiano in Asia» (Spirali, p. 350. euro 20) che ripercorre da un alto la vita del gesuita, dall'altro le sue idee, incentrate sulla convinzione che per avere a che fare con popoli diversi bisognasse farsi simili, accettarne i modi di vita, rispettarne la cultura, imparare con umiltà. Dopo l'esperienza in carcere, Valignano era diventato un uomo diverso, aveva deciso di diventare gesuita e nel giro di qualche anno aveva assunto un ruolo centrale tanto da essere scelto come responsabile delle missioni dei gesuiti in Asia. Era il 1573 e da allora, fino alla morte nel 1606, Valignano visse e viaggiò in Oriente, imparando a conoscere India, Cina e soprattutto Giappone. come Cristo si è fatto uomo per salvare gli uomini, era la convinzione di Valignano, i gesuiti dovevano diventare giapponesi per salvare i giapponesi. Era una politica dell'adattamento, del rispetto per le culture, nata da una lunga osservazione, da una lunga riflessione. Per parlare ai giapponesi bisognava mangiare come loro, pensare come loro, usare la stessa lingua e Valignano lo imparò tanto bene da diventare, come poi avverrà in Cina per Matteo Ricci, un interlocutore rispettato ai più alti livelli, capace di mediare anche nei conflitti tra shogun che attraversavano il Giappone nel periodo degli Stati combattenti. È grazie a lui le conversioni al cattolicesimo si moltiplicarono, la voglia di scoprire l'Occidente pervase anche i giapponesi, che invitarono nuovi missionari ed inviarono per la prima volta giovani giapponesi in Europa. E questa è la parte attualissima della storia, secondo Vittorio Volpi, quella che dovrebbe essere di lezione anche agli imprenditori che decidono di impegnarsi in Asia: non arrivare con le ricette già pronte, ma imparare, capire: «Sono stato due anni in silenzio - diceva Valignano - al terzo sono in grado di comprendere». Valignano fece della sua esperienza un metodo. I gesuiti che arrivarono in Asia anche dopo la sua morte per prima cosa imparavano la lingua del paese, i costumi tradizionali, i modelli di riferimento. Poi gli integralisti ebbero la meglio, in Giappone e nella Chiesa, i due mondi tornarono a separarsi e Valignano fu dimenticato. Sconosciuto, con lui impegnato a diffondere le idee dell'Occidente cristiano in Cina, c'era un altro grande missionario, Giovanni Da Montecorvino, francescano dei frati minori che nel 1299 costruì la prima chiesa a Pechino e acclamato come santo dai cattolici della Cina. (Nicolò Menniti Ippolito)
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