Troppo spesso, purtroppo, è difficile associare il sorriso alla cultura ebraica. Sarà per il peso, fortissimo della loro storia; oppure semplicemente per la severità che immaginiamo ricopra i loro comportamenti. Anche quando si parla di letteratura ebraica, spesso mi vengono in mente le parole di Sergio Campailla che la catalogava tra le letterature di confine più interessanti, al pari di quella siciliana e di quella mitteleuropea e proprio per questo difficile da comprendere. Nel saggio "Ebraismo e letteratura", l'autore delinea un percorso che ci permette di capirne la peculiarità, partendo proprio dalle parole di Freud nella sua Autobiografia ("Mi feriva l'idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri"). Mi sono nutrito, per merito suo (o per colpa), di opere come La tribù di Italo Svevo, La persuasione e la retorica di Carlo Michelstaedter, Il processo di Kafka o il Phamplet postumo di Guido Voghera per tentare di penetrare nelle maglie della storia (e persino, all'opposto, dell'antistoricismo). Poi mi capita di leggere un libro, solo apparentemente innocuo, chiamato Racconti intorno alla felicità ebraica (Spirali, 2011), un testo uscito recentemente che ho trovato interessantissimo. Un mio grandissimo amico, ebreo, s'incuriosisce del titolo e dimostra di saperla molto più lunga di me. Mi parla di emunà, di bitakhon, di histapkut, e di sekhel. Rimango spaesato e attratto da quei suoni. La fede, la fiducia, il sapersi accontentare, l'intelletto. Questi sono gli ingredienti della gioia. "Sappiamo essere felici" mi dice. Mi ha letto nel pensiero. Va avanti facendomi esempi su esempi presi dai testi sacri. Quasi non riconosco il mio amico, mi mostra un lato che non conoscevo e che trovo molto affascinante. I racconti del libro mi rimbombano nella testa. L'autore, Anatolij Krym, è un ucraino che sembra conoscere il mondo in cui abita. Che sembra capire, davvero, cosa sia successo dopo il 1989. È nato nel '46, a guerra finita. Da dove viene questa leggerezza? Mi sento proiettato nell'Europa dell'Est, gettato nella vita quotidiana di persone solo apparentemente così lontane. In sette racconti un affresco di personaggi squisitamente grotteschi, differenti per classe sociale, mestiere, velleità e credo politico. Non può mancare il "matto del villaggio" e neanche il rabbino; e poi ancora uomini, donne e bambini, tesserati al partito, segretarie e ingegneri, star della tv e scrittori modesti. Tutti però hanno in comune la kippà sulla testa (ebrei veri, presunti e non dichiarati) e la valigia stretta nella mano perché alla terra promessa in fondo bisogna arrivarci, perché per l'ebreo l'emigrazione è "qualcosa d'altro, storicamente e concretamente necessaria, ma metafisicamente provvisoria". L'Ucraina non appare più con il peso del Novecento sulle spalle ma sorretta da un sottile senso di piacevolezza, serenità. C'è grazia e colore dentro le case e dentro gli occhi delle anime che percorrono questo libro. Ci si commuove e si ride, leggendolo e fa piacere la "scoperta" di una narrazione "commovente, pervasa di arguzia, di umorismo e di autentica spiritualità". Rimane infine il gusto, sarà anche per l'ottimo ed elegante volume della casa editrice Spirali, di avere tra le mani qualcosa di prezioso, capace di regalarci anche più di un sorriso. E di questi tempi non è affatto poco. (Matteo Chiavarone)
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