Organizzò ricoveri, chiamò sacerdoti anche da fuori, arruolò volontari, allestì il Lazzaretto di via San Gregorio, distribuì viveri e celebrò messe in ogni contrada Un libro e una mostra celebrano l'arcivescovo di Milano e il suo "sacro zelo" nell'affrontare la terribile peste
Già nel marzo del 1576 nell'"aria" di Milano c'era qualcosa che non andava. Un vago sentore di malanni che si approssimavano: ma si pensava che la cagione dei "cresciuti funerali" – come scrive Giuseppe Ripamonti nelle sue Storie Patrie – fosse da attribuire ai "soliti morbi". Un paio di mesi ancora, però, e "si fe' palese esser contagio". La "sinistra voce" cominciò a invadere la città, suscitando spavento anche tra i nobili che pure "apparecchiavano feste e spettacoli" per rendere omaggio ad un Principe atteso da tempo e al quale volevano dare "un'alta idea delle ricchezze lombarde". Ebbene, quando si diffuse la notizia che nella zona di Porta Comasina, nel rione degli Oliari, alcuni mentre mangiavano, altri mentre stavano lavorando, erano improvvisamente caduti a terra morti e che la stessa sorte era toccata a familiari e amici che avevano cercato di soccorrerli; quando questo "infausto annunzio" arrivò nelle case patrizie, subito si interruppero i "cavallereschi ludi" e "balli e conviti si sciolsero". Il Principe, che pure non aveva lesinato lodi alla città ambrosiana, "encomiandone le sontuose delizie" e "celebrandone il lusso molteplice", non mise temo in mezzo e fuggì subito a Genova, insieme al Governatore. Il Cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1538, stava tornando da Lodi e gli venne incontro un corriere per notificargli "la calamità sovrimpendente al popolo, al gregge". Gli fu subito chiaro che in quel momento cruciale, "ogni gara di giurisdizione, ogni rivalità di poteri era sfumata, né più restava speranza altro che nell'Uomo divino". Carlo entrò "nell'attonita città" e non poté trattenere le lacrime, scorgendo una fiumana di gente che stava fuggendo verso la campagna, utilizzando cocchi o carri, oppure a piedi, e con la furia della disperazione. Corse allora in Duomo: qui si inginocchiò e pregò fervidamente Dio. Subito dopo, all'opera: bisognava darsi da fare, ricevere e dare le giuste informazioni, organizzare i soccorsi, visitare gli ammalati, confortare, dirigere braccia e cuori. Sollecito e infaticabile, Carlo Borromeo fu all'altezza del suo ruolo di buon pastore. Questa immagine di "sacro zelo" che viene fuori dalle Storie del Ripamonti – grande "archivista" seicentesco degli eventi cittadini, si occupò anche della pestilenza del 1524 e di quella del 1630, descritta dal Manzoni nei Promessi Sposi, nella quale, a figurare da buon pastore, è il Cardinale Federico Borromeo. Ovvero il cugino di quel Carlo, che gli aveva trasmesso ardore di carità e "intelligenza del cuore umano", come si evidenzia nell'episodio della conversione dell'Innominato – trova conferma in uno splendido libro da leggere, da guardare e da conservare (Fabiola Giancotti, Per ragioni di salute. San Carlo Borromeo nel quarto centenario della canonizzazione. 1610-2010. Con 62 opere d'arte inedite. Presentazione di monsignor Franco Buzzi. Il Club di Milano-Spirali, pp. 1000 - di cui 600 illustrate a colori - euro 98). [...]
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