The Second Renaissance
     
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I movimentati anni dell'esilio di Cervantes


  
 
Notazioni

Diceva l'ordine di cattura: «...A voi, Juan de Medina, nostro birro salute e grazia, sappiate che per gli alcaldi del nostro Consiglio si è proceduto e si procede in Contumacia contro un Miguel de Cerbantes, assente, per la Ragione di aver dato, nella capitale, ferite certe a Antonio de Sigura mentre era in quel luogo, ragione per cui il detto Miguel de Cerbantes fu condannato dai detti nostri alcaldi a che la sua mano destra sia mozzata, con pubblica ignominia, e all'esilio dai nostri Regni per un tempo di dieci anni ed altre pene contenute nella detta sentenza...».
L'ordine, emesso dal re di Spagna, sebbene firmato dai suoi funzionari, «in Madrid il quindici settembre del mille e cinquecento e sessanta e nove», contro un «Miguel de Cerbantes» (ch'era, nientemeno, Miguel de Cervantes y Saavedra, l'indiscusso genio della letteratura spagnola, celeberrimo autore del Don Chisciotte) non fu mai eseguito, perché Cervantes, perseguitato, più che dall'ordine, dal fantasma della mano mozza, riuscì a sottrarsi alla cattura riparando all'estero e, prima ancora, a Siviglia. Un esilio durato per ben undici anni, più di quanti ne avrebbe dovuto scontare lontano «dai nostri Regni», secondo l'ordine impartito da re Filippo II, figlio di quel Carlo V che tanto amabilmente aveva fatto «todos caballeros» tutti gli abitanti «catalani» di Alghero.
La sentenza, dunque, non fu eseguita ma, per ironia della sorte (qui è proprio il caso di dirlo), il grande scrittore spagnolo non solo fu costretto ad un esilio durato più di quanto prevedesse la sua pena ma perse in battaglia anche l'uso di quella mano che gli si voleva tagliare «per aver dato ferite certe» a un Antonio de Sigura, «individuo permaloso e vendicativo» che, peraltro, l'aveva provocato con certe malevole insinuazioni sulle sue tendenze sentimentali. Ma il più ferito, e per tutta la vita fu il giovane Miguel, che non si perdonò mai quell'attimo di indignazione che lo portò a battersi a duello con il Sigura.
Scriverà di lì a poco, rivolto a se stesso. «Sei tu che hai forgiato la tua sventura...». Insomma: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. E, di fatto, il Cervantes deplorerà fino alla fine dei suoi giorni quell'attimo di crisi violenta, che un villano mastro muratore come il Sigura era riuscito a scatenare dentro di lui. Appena poco prima di morire, ci tornerà ancora sopra, scrivendo nel suo Viaggio nel Parnaso: «I tiri mancini della sorte arrivano in ritardo / e prendono la corrente da tanto lontano...». Come puntualmente e di fatto accade per tutte le azioni umane, per tutti i nostri comportamenti. Cervantes trasferirà più volte sulla pagina gli episodi salienti della sua vita, troppo scaltro, tuttavia, per farsene invischiare, epperciò tenendoli in qualche modo a distanza per estrapolarne un giudizio assai ricco e articolato su tutta la vicenda umana e, prima ancora, su quel siglo de oro (su quel secolo d'oro) che, per molti versi, fu appena dorato o non lo fu affatto.
Ma quella della mano che doveva essere tagliata, ed era la sua mano di scrittore, fu certo un'ombra incancellabile e fondamentale nella vita di Miguel de Cervantes. Egli ne fu tanto terrorizzato che cercò immediatamente scampo fuggendo; a Siviglia, dapprima, e in quel bianco labirinto sperò di perdersi e di salvarsi; ma presto lo raggiunse quell'ordine di cattura di cui s'è detto, con quella feroce, spietata condanna al taglio della mano.
Decise, allora, di lasciare la Spagna e di rifugiarsi in Italia. Lui, povero sbandato di un miguel, figlio di un cerusico (qualcosa di mezzo tra il chirurgo e il barbiere), di famiglia «decaduta di rango» (si chiamavano hijosdalgos da hijos de algo, ossia «figli di qualcuno» ch'era stato qualcosa), cercava una gloria tutta terrena e forse neppure questa. Forse tentava soltanto di salvare la sua mano e nessuno, a Madrid, avrebbe potuto aiutarlo: «Io mi affliggo e mi lamento / nel vedermi solo, in piedi, senza / un albero che mi dia appoggio». Fuggì verso l'Italia e, non si sa dopo quanto tempo, giunse finalmente a Roma. Nel centro della cristianità quei «cristiani sospetti» che erano gli spagnoli, tra i quali c'erano molti conversos, cioè convertiti dall'ebraismo al cristianesimo, non erano ben visti. Erano chiamati sprezzantemente «giudei, marrani, ispani». E si pensava che fossero «altezzosi, arroganti, pacchiani e litigiosi, oltre che osservanti dei ridicoli protocolli e galatei castigliani». Inutile dire che Miguel de Cervantes non era niente di tutto questo; era, anzi, tanto al di sopra di tutto questo, che provò subito una grande simpatia per la città di Roma, che presti divenne ammirazione. [...]

 
Relazioni
eco di stampa di Uno schiavo chiamato Cervantes (Libro)





 
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