Tre poeti d'oggi. Ma tre poeti che, normalmente esclusi dalle antologie scolastiche ed ignorati per lo più anche da quelle selezioni provvisorie del Novecento e del post-moderno che tentano di fermare alcune linee e dei nomi di convergenza (Anceschi, Mengaldo, Sanguinetti, Gelli-Lagorio, Segre-Ossola, ecc.) non sono tuttavia degli ignoti. Hanno fior di credenziali, di titoli, di pubbliche incombenze in settori diversi e contigui: la cattedra universitaria per Giorgio Barberi Squarotti, la narrativa per Giuliano Gramigna, il giornalismo e la saggistica per Angelo Mundula. In comune hanno, s'intuisce, l'amicizia. E condividono anche un certo spirito di rivalsa su quei cancelli di Parnaso che per loro sono rimasti ostinatamente, e forse ostentatamente, chiusi. L'affetto che nutrono per la cosiddetta invenzione (sì, nel senso alto e manzoniano) li sospinge però come un assillo, un dolce e non guaribile amore verso l'esercizio poetico, a cui ciascuno dei tre sacrifica volentieri tutte le altre investiture. Scrive Barberi nella presentazione di questo strano frontespizio (La quarta triade. Poesie di G. Barberi Squarotti, G. Gramigna e A. Mundula, Spirali ed., Milano 2000, pp. 245, L. 30.000) che l'essere presenti in tre in un medesimo libro, e raggruppati per linee tematiche trasversali, garantisce la qualità del prodotto (perché presuppone una selezione) facilitando così il lavoro degli storici del futuro che non avranno bisogno d'altre ricerche per conoscerli («ecco tre poeti che, se sono stati raccolti insieme, da soli, in un'antologia, devono proprio essere stati sommi»): la sottolineatura è mia, e scopre un arguto, iperbolico gioco al rialzo. Tra l'altro il titolo con quella quarta triade, inventata da Mundula, allude copertamente alla consuetudine scolastica (ma anche accademica) di raggruppare i grandi in successione ternaria, Foscolo-Leopardi-Manzoni, Carducci-Pascoli-D'Annunzio, Ungaretti-Montale-Quasimodo (ma le azioni in ribasso del primo Nobel del dopoguerra induce molti a ternare Saba o Sereni o Luzi) per cui la nuova terna sarebbe la quarta della serie moderna: se però si comincia il computo della prima stratosferica Dante-Petrarca-Boccaccio si arriva alla decima! Ma continua il Barberi: «I tre non sono certamente né ingenui né candidi. Si reputano almeno sublimi. Ma a loro piace anche la letteratura come gioco, dal momento che quanto scrivono pretende di essere serio, trattando per lo più di argomenti poetici non frivoli... Il rischio maggiore che sanno di correre è che, in un tempo così impermeabile all'ironia e soprattutto popolato di persone che, quanto più sono potenti, tanto più sono presuntuose, e di conseguenza del tutto prive di auto-ironia, il loro gioco sia preso tremendamente sul serio e sorgano le deprecazioni, lo scandalo, le condanne più fiere, i moralismi letterari più rigorosi». Accettiamo dunque il gioco, e vediamo questi poeti nella scansione tematica ch'essi stessi propongono, al di fuori dei percorsi un po' criptici della presentatrice Paola Pepi. C'è prima di tutto l'ipotesi del Sogno, irrefutabile persistenza d'idealismo gnoseologico e di romantica effusione in ogni testo che accetti come incipit il dato umano vigile e responsabile. Sogno è per Barberi un incontro d'amore in uno sfondo irto di simboli «fra statue remotissime di Grazie lievemente / danzanti o forse solo oscillanti nel silenzio e / nella solitudine, e anche fontane ricche d'acque / e vasi con lunghe erbe di un verde un po' malato, / e stanze, stanze, stanze dove non è mai / stato nessuno, e neppure tu»; per Gramigna è un hapax amoroso già minato da un destino avverso: «la tua città non è nel centro / della sfera di Parmenide, un vento bruno / l'ha spinta quietamente sull'orlo dello spacco / ...e una confusa presenza abita le fratte del nostro cuore»; per Mundula un'accettazione del naufragio nel consenso delle anime: «E tu nel mio pensiero / ed io nel tuo / tacendo / rabbrividendo / sprofondiamo insieme». Poi ecco Il Sacro, che si prolunga tematicamente nel terzo tempo di Io, l'Altro: l'una e l'altra partitura brillano ricche di cose massime, contraddette e discusse per l'entropia naturale e per il disfacilmente storico (a proposito, ci chiediamo tutti, non solo i sommi, quanto resti oggi della sacralità della storia, della storia tutta sacra: è bastato un secolo per capovolgere Palazzo Filomarino, non ne resta più un mattone). Per i Tre – stavolta si può scrivere la maiuscola senz'ironia, è il tema che s'ingigantisce – non c'è il sacro come adempimento, riposo, pacificazione raggiunta; non c'è fede teologale, bensì il suo conflitto con la disperazione. E non è certo un caso che i testi più alti si trovino in questo doppio binario. Di Barberi sceglierei L'idea e Quanto divide da Dio, sono due momenti bellissimi che spiace non riprodurre per intero (ogni prelievo sarebbe monco); di Gramigna uno slancio abbacinante del lontano 1956, di cui pochi si sono accorti: «...Ma tu, ombra di pianto / che ci assenti dal cuore / così perduto, schianto / di un altro viso: cuci / la nostra bocca, consumaci, Tu, Rosa-di-Luce». Dove l'ineffabile si identifica, senza equivoci, con la luce mariana. Di Mundula, infine, l'assiduo lamento di Giobbe che vuole una volta medicate le proprie piaghe, e lo chiede con la forza esigitiva di chi soffre: «Quante mattine ancora dovrò aprire gli occhi / davanti all'inconoscibile / che non vuol essere conosciuto? Da che cosa / e perché tanto segreto su questa vita / che pure ci appartiene, è nostra?». Nelle rimanenti due sezioni, L'immagine e Poesia e irrealtà, la variazione fantastica si sposta sulla poesia come necessità e strumento, come struttura sopra e non sotto, della parola che vive, pensa, elabora, comunica; della parola che cerca le connessioni con l'amore che l'ha fatta nascere; della parola che cerca la propria musica per farla ascoltare altrui. E mentre Barberi, che dei tre possiede la più ampia tastiera, saggia combinazioni e frizioni con effetti d'iperrealismo e di moralismo; mentre Mundula si concentra sempre più sul frammento lirico; Gramigna reclama per sé tutta l'ultima sezione, dove da solo occupa l'indefinibile spazio delle fonti oniriche: «Leggendo i libri degli altri / si trovano le migliori poesie (proprie). O leggendo / nel sogno». Quell'allusione al proprio nell'altrui, nella sua malizia ci riporta all'assunto paradossale e, in fondo, burlesco. Ora io non so se la quarta Triade avrà risonanza nei rumori (se ci saranno) della cronaca; so che le tre presenze che il volume disegna sono di poeti autentici, ma che la loro coesistenza non cancella le voci di quanti lavorano per tematiche affini. Sono veramente molti, oggi; e costituiscono una realtà preziosa e consolante in questo gramo pianeta globale. Bisognerà dunque parlare non di triadi, ma di schiere in cammino. (Franco Lanza)
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