Se n'è andato Lucio Lami che per oltre mezzo secolo è stato interprete e protagonista d'un giornalismo alto, nobile, impegnato e appassionato. Era nato in Lombardia, ma d'origine toscana. I Lami, come i Montanelli, ricordava, hanno vissuto e sono cresciuti per secoli «a latte e stilettate» nel triangolo Empoli-Orentano-Pontedera, i Montanelli a Fucecchio, i Lami a Santa Croce. Nutrito di buoni studi, Lami, classe 1936, debuttò a ventiquattro anni in un quotidiano, La Notte, che aveva un direttore straordinario, Nino Nutrizio. Dopo l'esordio, la carriera di Lami si svolse dapprima nei settimanali con editori che si chiamavano Gianni Mazzocchi, Edilio Rusconi, Arnoldo Mondadori, Angelo Rizzoli.
La svolta che l'avrebbe profondamente segnato dal punto di vista professionale arrivò con l'assunzione al Giornale, poco dopo che era stato fondato, nel 1974. Montanelli aveva apprezzato le qualità di scrittura del suo quasi conterraneo. Con il quale ebbe dopo d'allora un rapporto «toscano, anzi di Padule, una specie di amore a dispetto». L'ingresso al Giornale certificava non soltanto un'affinità stilistica, ma anche, e forse soprattutto, un'affinità ideologica. Anche da giovin signore, prima dunque d'essere iscritto fra i veterani della cultura, Lami era un conservatore illuminato: affezionato ai valori tradizionali ma ben capace di capire i nuovi momenti e i nuovi movimenti. Un libro, Il grido delle formiche, che era dedicato al dissenso sovietico e che gli meritò il Premio Estense, lasciava bene intendere, per argomento e per svolgimento, da che parte Lami stesse. Agli ordini di Montanelli – se si può parlare di ordini per uno, come Indro, che alla direzione era negato – Lami fu finalmente in grado di fare il mestiere da sempre ambito. Quello dell'inviato in terre e vicende internazionali drammatiche, quello del corrispondente di guerra coraggioso e intelligente. Aveva, Lami, una concezione quasi missionaria del giornalismo, sicuramente rimpiangeva che l'anagrafe gli avesse impedito d'essere testimone e narratore della seconda guerra mondiale. La carica di cavalleria di Isbuscenskij, sulla quale scrisse un libro, riassumeva le sue passioni, l'impresa eroica e i cavalli. Un altro suo libro si occupò infatti di quel mitico Caprilli che rivoluzionò la tecnica del cavalcare.
Come modelli di lavoro Lami ebbe figure che al lettore d'oggi dicono poco o niente, ma che furono leggendarie. Venerava Vittorio G. Rossi, secondo lui «il più grande scrittore di viaggi. Molti giovani crescono a pane e nutella. Io sono cresciuto a pane e Vittorio G. Rossi». Rispettava Giovanni Artieri e Max David. Ammirava, lui così rispettoso dei doveri sociali e delle buone maniere, quel tipo o tipaccio stravagante, affascinante, geniale che ebbe nome Gian Carlo Fusco. Il giornalismo delle realtà quotidiane o delle valutazioni politiche non l'entusiasmava. Come Ettore Mo, come Luciano Gulli, era orgoglioso d'appartenere a una élite di spavaldi e di intrepidi che per la notizia potevano mettere a repentaglio la vita. E così fu presente in Cambogia, nel Laos, nelle due guerre del Golfo, in Libano, nell'Afghanistan, nel Ciad e poi proseguendo tra rivoluzioncelle e guerricciole.
Il suo amore per il giornalismo, quel giornalismo, era sconfinato e irremovibile, inutile voler insinuare che i lettori leggono soprattutto le cronache locali. Riteneva che il giornalismo, come i libri – ne scrisse tanti, di prim'ordine –, dovesse essere maestro di comportamenti e di vita, oltre che custode del presente e del passato. Idealmente era sempre a cavallo, indifferente al rumoreggiare di internet e dei vari blog. Per i suoi meriti culturali era stato nominato presidente onorario del Pen club italiano, e credo che nessun'altra scelta avrebbe potuto essere più azzeccata.
(Mario Cervi)
|