Ho incontrato Giorgio Antonucci per la prima volta nel 1989 all'ospedale psichiatrico di Imola, una grigia mattina d'inverno. Fortissimo era a quei tempi il linciaggio del luogo comune contro Armando Verdiglione e il Movimento Freudiano Internazionale, rei di aver avviato una casa editrice finanziata dall'investimento di giovani, di intellettuali, si artisti anziché dal grande capitale o da tangentopoli. E fortissimo era anche lo sbarramento proprio degli psichiatri e degli psicanalisti nazional-popolari, arroccati a difendere privilegi, a salvaguardare un'immagine professionale, a partecipare alla spartizione dei posti e dei “pazienti”: vegetavano nella complicità con il tribunale, spesso loro datore di lavoro (perizie e consulenze), in una logica dell'incultura e della tangente incompatibile con la ricerca e l'impresa di Armando Verdiglione. Ma Giorgio Antonucci, medico, psichiatra, psicanalista non partecipava all'opinione comune: “Sono felice di partecipare alla vostra battaglia culturale – mi rispose –. Verdiglione è accusato di circonvenire gli incapaci aprendo ai giovani le sue società, io di abbandonarli perché, secondo la stessa legge 180, li mando fuori dal manicomio. Ma l'incapace non esiste, è la versione giudiziaria del concetto psichiatrico malato di mente”. Mi sentii subito leggero e felice, mi sembrava ci fossimo parlati da sempre, senza conoscerci: da allora ci siamo incontrati più volte a convegni, dibattiti, trasmissioni televisive, sempre sulla breccia per affermare che la libertà di parola, l'estremismo dei pensieri, la differenza del fare di ciascuno sono irrinunciabili: “C'è da dire – scrive Antonucci a proposito dei cosiddetti deliri di persecuzione nel suo ultimo libro Critica al giudizio psichiatrico (Sensibili alle foglie edizioni) – che quando una persona si raffigura i suoi rapporti con gli altri può essere, secondo certi punti di vista convenzionali, giudicata più o meno realistica o più o meno fantasiosa, ma niente se non l'arbitrio, la consuetudine, e la convenienza di alcuni, ci autorizza a giudicarla malata di mente, o delirante o irresponsabile, e tantomeno siamo autorizzati a privarla della sua libertà per ridurla, attraverso l'umiliazione e il lavaggio del cervello, allo stato di paura e di sottomissione, e infine a lungo andare, alla condizione di pura e semplice vita vegetativa, non più capace di iniziativa e di scelta perché soffocata dal terrore”. Purtroppo in questi anni di dibattiti (ora il suo libro viene presentato in varie città, da Imola a Milano) Antonucci e io abbiamo potuto constatare, sulla nostra pelle, che la credenza nel soggetto irresponsabile e incapace è molto radicata, e la sua abolizione suscita fortissime reazioni, sia nei convegni psichiatrici e psicanalitici, sia nelle assemblee con militanti di sinistra. La questione è che il malato di mente è una categoria essenziale alla loro legittimazione: tolto l'incapace l'ideologia psichiatrica non può più esercitare il potere di controllo e di repressione (dalle perizie alla sorveglianza della follia) che è la sua ragione di vita; ma sopra tutto vengono meno la necessità dell'assistenzialismo (che spesso sfocia il protezionismo) talora addirittura ricattatorio su cui basa la propria necessità una certa demagogia di sinistra. Per questo in questi anni il lavoro di Antonucci di liberazione dall'ospedale psichiatrico e dagli psicofarmaci non è stato facile: come scrive nel libro, la stessa Psichiatria democratica, i particolare Basaglia e Jervis, presero le distanze da lui, che non mira alla democratizzazione della psichiatria, bensì alla sua abolizione. “Quel che i medici di Gorizia non hanno mai riconosciuto – scrive nel libro – è che il labirinto non è il manicomio, il manicomio è solo una conseguenza, ma la vera trappola è il giudizio psichiatrico, una doppia scure, un mondo senza uscita, una via senza ritorno, un inferno nel significato di Dante, come fine della speranza”. Per questo Critica del giudizio psichiatrico è un libro unico: non è solo la denuncia delle condizioni in cui versano i ricoverati coatti (ancora troppi, centinaia di migliaia in Italia, e in continuo aumento), è la constatazione che ogni valutazione autoritaria del pensiero, ogni tentativo di modificarlo con la forza (che sono le ragioni di esistenza della psichiatria) conduce necessariamente alla fine, all'annientamento delle vittime. Per questo il libro è particolarmente interessante quando prende come esempio di “delirio persecutorio” i casi di diagnosi di intellettuali e artisti, come per esempio quella di Luciano Sterpellone, che nel suo Mozart tra medici e medicina (1991) scrive che il musicista prima di morire “al suo ritorno a Vienna si mostrava di pessimo umore; Nissen (un suo biografo) parla decisamente di un'estrema irritabilità. C'è anche chi parla di una psicosi vera e propria, sia nel senso di ansia ossessiva di morte imminente, sia del timore paranoide di essere stato avvelenato. Si è anche parlato di ‘elementi paranoici della sua personalità, associati a gelosia, possessività e labilità emotiva’.”: è un esempio di come la mitologia psichiatrica sia uscita, lei sì, dai manicomi e sta invadendo gli aspetti della vita civile, fondando categorie morali e segregative ammantate di scientismo; vengono in mente quelle brillanti righe che Antonucci dedica a Cassano, che insegna clinica psichiatrica all'Università di Pisa e che dilata ovunque la credenza nella depressione (oltreché — e non si sa cosa sia peggio — quella nei miracoli dell'elettroshock!) nella rivista “Il secondo rinascimento” n° 8 (Spirali/Vel edizioni): “Poiché si occupa anche della parola e della lingua, leggendo la Divina Commedia: ‘nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la dritta via era smarrita’ Cassano dice che Dante, se si trova in una selva oscura, è depresso. Siccome il depresso ha una sostanza in meno nel cervello, è deficiente (termine esatto per indicare colui al quale manca qualcosa nel cervello), quindi Dante è deficiente. Se Dante avesse incontrato Cassano sarebbe stato curato con gli psicofarmaci e con l'elettroshock e non avrebbe scritto la Divina Commedia. Sarebbe stato internato, curato, e poi, se i tempi fossero stati maturi — oggi, per esempio — dopo il ricovero, qualche psichiatra democratico avrebbe fatto in modo di accoglierlo in una casa-famiglia”. Chi è Giorgio Antonucci? Non certo un difensore degli irresponsabili, degli incapaci, dei deboli, di cui ignora l'esistenza, incompatibile com'è con la dignità di ciascuno. Nella prefazione al libro il grande psichiatra americano Thomas Szasz scrive: “Giorgio Antonucci è un medico rigoroso e audace che ha osato sfidare la convenzione psichiatrica che prescrive di trattare i pazienti come non persone. Per questo atto di umanesimo si è conquistato l'ammirazione e l'affetto di amici e pazienti”. E ancora: “Giorgio Antonucci è una persona che sa quello che vuole. Quello che ha da dire è importante”. Thomas Szasz non ha torto e basta leggere questo libro per capirlo. Per me Giorgio Antonucci è, ancor più, fine intellettuale, straordinario poeta (impossibile dimenticare la sua raccolta La nave del paradiso, Spirali/Vel edizioni) e sopra tutto vero interlocutore.
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