The Second Renaissance
     
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 La verità è un errore


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La verità è un errore


  
 
Notazioni

Ho qualche dubbio che i filosofi — come si sente dire in giro — conoscano i sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera. Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all'origine — almeno in Occidente — del passaggio denso di conseguenze dall'oralità alla scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume. Ma in fondo l'ultima parola non è mai la nostra. Diceva Perice: il significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre in errore. In cammino. Non a caso io parlo di "transito della verità"».
A nessuno piace l'errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno insegnato a diffidare dell'errore e del peccato, suggerendo i modi per evitarli.
«C'è in queste filosofie o visioni del mondo un'idea di perfezione che ha provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l'Occidente ha fondato il proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l'introduzione della scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal corpo di chi parla. La scrittura — diversamente dall'oralità — ci pone di fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a trasmettere il sapere, non c'è separazione o distanza tra ciò che diciamo e il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica — che sono scritture per tutti — non avremmo avuto l'universale e quindi la scienza. L'universale — che i greci hanno chiamato Logos — ha determinato il corso del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall'altro noi che l'avviciniamo e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è illusorio pensare di conoscerla». [...]

 
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eco di stampa di Carlo Sini (Accademico)





 
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