“Non è il tempo che conta: due mesi, due anni, dieci anni. Devi diventare assiomatico di qualcosa. Valpreda della falsità della pista rossa: la strage è di stato. Tortora della giustizia ingiusta. Io della lunghezza della carcerazione preventiva”. Così scriveva Giuliano Naria - quasi dieci anni passati in cella senza condanna, dodici sotto processo - nel terribile memoriale In attesa di reato (Spirali, 1991). E chi potrebbe fare da ecce homo contro l’inumanità del blocco della prescrizione? La questione è cruciale, perché oggi più che ai tempi di Naria una battaglia impopolare, per resistere nella percezione pubblica, deve sposarsi a un volto, altrimenti si può finire per credere, come Michele Serra, che sia “materia da legulei”. Ebbene, i teorici del processo infinito, dello stato come sovrano assoluto sul tempo dei cittadini, di volti ne hanno fin troppi. Così come Dickens, diceva Manganelli, “per farvi piangere vi prende a bambini morti in faccia”, loro ti schiaffeggiano con i parenti delle vittime - vedi Padellaro che, per mettere a tacere il leguleio Caiazza, gli mette sotto il naso l’uomo simbolo della strage di Viareggio, con il corpo coperto di ustioni. Come rispondere a questi ricattucci melodrammatici? Per feroce paradosso, la giustizia interminabile imbratta tutte le icone che le si potrebbero contrapporre. La mentalità comune fa il resto. Ne Il segreto di Luca, romanzo di Ignazio Silone, un uomo torna a casa dopo quarant’anni in carcere per errore, ma tutti lo schivano come un appestato: “Innocente o meno, egli è stato all’ergastolo”.
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