È difficile immaginare, nella nuova stagione critica in cui lo si legge, che il poeta Leopardi possa comprendersi senza la valutazione che egli fa delle moderne scienze della natura. Almeno fino al 1815, l’anno del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, Leopardi mostra di avere una profonda fiducia nella “verità” e nell’“esattezza” di queste scienze. Questa fiducia cade, almeno a cominciare dal 1818, l'anno del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Intanto, Leopardi, ha cominciato a stendere lo Zibaldone (1817). Attraverso le pagine di questo, è possibile seguire la critica di quelle scienze, i cui titolari, secondo Leopardi, costituiscono la “repubblica scientifica” europea, responsabile di avere offerto un “sistema semplicizzato e uniformato” del mondo. A questo sistema, contrappone il “sistema del bello”, cioè un mondo che può dirsi non con i “concetti” della scienza, ma con le “immagini” della poesia. Si tratta di una grande avventura dello spirito, che oggi si può percorrere alla luce del destino, sul quale riflette anche Nietzsche, della “visione del mondo” meccanicistica, senza dubbio in crisi profonda quando si mette in questione la “verità” in ogni proposizione scientifica. Tuttavia, non manca, nello stesso Leopardi, l'avvertimento del bisogno pratico di credere in questa “verità”. E il poeta? Il poeta si pone le grandi domande sull’“esistenza universale” che lo scienziato rischia di escludere o esclude di fatto dalla sua ricerca. Ma resta da vedere se l’uomo, anche l’uomo di Leopardi, possa vivere unicamente di queste domande, per di più lasciate senza risposta, oggi così care ai nullisti, ludici o tragici che si vogliano.
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