Scrivo in etrusco. E non come tutti. Non posso infatti scrivere in italiano né in francese né in americano. Non posso prescindere dal sembiante e dal tempo per partecipare alla communiologia e per pagare un tributo alla mnemotecnica. Non parlo da un codice di gruppo per giustificarlo e convalidarlo. L'idioma qui è quello in cui sono coinvolto e esisto. Un idioma immemoriale e incondivisibile. E lo sforzo di precisione e di puntualità, di articolazione e di stile, di specificità e di rigore è pulsionale. Non personale né plurale. Irrisolvibile in fatica. Scrivo in un debutto non per la dossìa e per la sua diffusione né per raccomandare qualcosa né per congedarmi. Lo scrivere si svolge in un tempo insuccessionale. E l'instaurazione del sembiante impedisce tanto il monologo quanto la sua componente il dialogo. Quel che scrivo non viene esibito né conservato in nessuna bottega. Serba la solitudine dove avviene e dove diviene. E non può ricevere il plauso dell'accolta perché non manifesta i portenti dell'eroismo personale e sociale. Non va tralasciato che respinge coloro che posseggono o cercano la verità ossia sono nella condizione di barare. Quel che scrivo non si scosta dall'esperienza analitica. Non che la consideri come oggetto su cui arrecare una formalizzazione e una sistemazione per il pubblico come maniera mediotanasica di archiviazione. Non che la usi per giustificarla di fronte all'occhio del mondo. Non che proceda parallelamente a essa. Ma si situa lungo il suo cammino. Non separo la psicanalisi dall'esperienza e dal tempo in cui esiste. Non la considero un ideale per me e per i molti. Non mi riferisco a essa come a un modello pragmatico o scientifico. Nulla trovo in essa di personale. Nulla che possa essere socializzato. E dell'ideale rilevo la traccia dell'ideale dell'io e la figura di un'idealizzazione che lascia in perdita l'oggetto. Da quasi un decennio sto introducendo un dibattito culturale lontano dalla bandiera e dalla linea e che scuote tra un paese e l'altro e tra un continente e l'altro i comitati di partito e di cappella, i vocabolari di campana e di provincia, gli allarmi dei salotti e dei corridoi e le scuderie congiunte e comparate delle varie dottrine passatiste, presentiste e futuriste. Un dibattito che s'inscrive in una pratica d'invenzione. Nella singolarità della voce. Nella specificità di un'articolazione. Nella particolarità di un idioma. In uno sdegno a volte che non incrimina. E mi è stato rimproverato segnatamente di essere passato dal liceo dei gesuiti alla formazione freudiana senza nemmeno visitare i campi militari cecoslovacchi e senza avere accettato nessuna lezione che m'inducesse a non fare nulla senza chiedere permesso al comitato centrale e alla direzione strategica delle brigate rosse. Ho indicato in questi anni come la denuncia preceda e prepari l'ordine e su quali basi si regga il terrorismo generalizzato di questa epoca. Non mi sono assoldato a una logica delle alternative che rende il più alto servizio alla visione del mondo. Quel che trovo s'inscrive invece in una logica della nominazione in cui cammina la psicanalisi. E non invito all'assise di culture diverse né a un confronto disciplinare e ideologico che vanta decine di scissioni e di rotture negli ultimi quartant'anni in Europa. Lascio i convenevoli dello psicodramma ai devoti delle ufficiature antropologiche e politiche e ai celebranti di mariologie contrapposte e capovolte e di necessitarismo di corte, di curia e di accademia. Invito a un confronto con quel che di mobile, d'impertinente e d'inquietante irrompe nel lavoro scientifico. Tutt'altro che natura parendo vincitur. (Armando Verdiglione) |