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Quando Ruggero Guarini lasciò il Partito comunista


  
 
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Nel libro di Armando Verdiglione ("Scrittori, artisti") il giornalista racconta le motivazioni che lo spinsero ad abbandonare il Pci

Oggi a Villa San Carlo Borromeo, a Milano Senago, verrà presentato il libro di Armando Verdiglione "Scrittori, artisti" (Spirali). Da oltre trent'anni Verdiglione incontra scrittori, musicisti, pittori, poeti, artisti provenienti da varie parti del mondo: e qui incomincia la loro storia, raccolta in questo volume. Racconti, aneddoti, testimonianze di vita, battaglia e amicizia, sono proposti in conversazioni inedite. Un viaggio tra nazioni, contrade e città: a Parigi con d'Ormesson e Guattari, a Tunisi con Slama, a Cuba con de Armas, Carralero e Valladares, a Gerusalemme con la Shenkar, a Cambridge con Bukovsky, a Mosca con Elena Gurwic, Ljuba Lyssenko, Erofeev, Bielutin, Jakovlev, a Aquisgrana con Gunter Roth, a Odessa con Josif Gurwic, in Siberia con Tereshenko, a New York con Foss e Desideri, a Budapest con Szasz, a Clusone con la Palchetti, a Roma con Paolini, Vangelli e Vacca, a Monte Urano con Trotti, a Camerano con D'Addario, a Napoli con Guarini, a Cuma con Ambrosino, in Calabria con Rotella, Nasso e Ungheri, in Sardegna con Bandinu, in Cina con Shen Dali e Dong Chun. Pubblichiamo qui di seguito una parte dell'intervista rilasciata da Ruggero Guarini.
"Nel '47 entrai nel Partito comunista - racconta Guarini -. Avevo sedici anni. Ma fu cinque anni dopo, nel '52, che incominciai a lavorare nei giornali del partito. Il primo lavoro, nella redazione napoletana di «Paese Sera», mi fu offerto come premio per aver partecipato a una manifestazione antiamericana contro il generale Matthew Ridgway, il 'generale peste', cosa per la quale fui arrestato e feci alcuni giorni di carcere a Poggioreale con un gruppo di compagni di allora (...). A Napoli ho lavorato per sei-sette anni nelle redazioni napoletane dell'«Unità» e di «Paese Sera». Ma facevo anche una vita di partito abbastanza intensa. Però devo dire due cose a proposito di questa mia militanza in quegli anni. Innanzitutto sento il dovere di confessare che in effetti veramente comunista non lo sono stato mai. Oscuramente, infatti, ho sempre fiutato e percepito, fin dall'inizio, il lezzo e l'infamia della storia del comunismo reale. Non avevo bisogno del ventesimo congresso e del rapporto Kruscev per subodorare come stavano le cose. Però mi dicevo che tutti gli errori e gli orrori di quel grande sogno sarebbero stati corretti quando esso si sarebbe totalmente realizzato".
"Poi, fra il '56 e il '57 - prosegue Guarini - accadde per fortuna un incidente che mi costrinse a reagire in un modo che portò alla mia espulsione per indegnità morale dal partito. La goccia che fece traboccare il vaso furono i fatti d'Ungheria, sui quali feci una serie d'interventi eterodossi nelle riunioni della cellula di cui facevano parte i compagni delle due redazioni locali di «Paese Sera» e dell'«Unità». In quelle riunioni, in quei giorni, si parlava spesso delle cosiddette 'violazioni della legalità socialista', ma sempre e soltanto di quelle avvenute nell'Urss e negli altri partiti comunisti. Io invece incominciai a parlare delle violazioni della legalità socialista commesse nello stesso Pci. Ricordo, fra l'altro, che proprio in quegli anni l'espulsione di Secchia dalla segreteria del partito era avvenuta in forme che costituivano una violazione sfacciata dello stesso statuto del Pci. Mentre infatti lo statuto stabiliva che gli organi dirigenti del partito potessero essere modificati soltanto da un congresso, Secchia era stato accoppato nel corso di una semplice conferenza, e questa infrazione grossolana lasciava supporre che al vertice del partito si fosse verificata una crisi sulle sui cause il gruppo dirigente non intendeva aprire nessun dibattito. Insomma non si voleva estendere alla base la discussione sulle ragioni per cui il compagno Secchia era stato defenestrato".
"In quelle riunioni - continua Guarini - parlai anche del modo oscuro in cui si svolgevano le carriere dei giovani dirigenti. Ogni tanto infatti accadeva che un giovane di belle speranze della nostra città - vedi i casi di Giorgio Napolitano, Massimo Caprara, Gerardo Chiaromonte - salisse al vertice di qualcosa, o finisse addirittura alla Camera o al Senato, ma di solito la cosa accadeva mediante un processo di semplice cooptazione dall'alto, senza che quelle scelte venissero proposte all'approvazione della base. Infine arrivai ad accusare di stalinismo anche Giorgio Amendola, cosa che sembrò una bestemmia. Allora di Amendola si diceva che incarnasse l'anima democratica e liberale del partito. Ma sulle infamie dello stalinismo aveva forse mai detto o scritto, prima del Rapporto Krusciov, una sola parola anticipatrice, e anche dopo quel rapporto aveva mai azzardato un'osservazione critica sull'Urss e sull'atteggiamento di assoluta sudditanza del Pci nei confronti del Pcus? No. E allora, che liberale era? Poteva dirsi tale, in qualche misura, soltanto sul piano dei rapporti del partito con le altre forze politiche, ma manifestamente non sul piano dei rapporti all'interno del partito, che per lui doveva restare una macchina burocratica dominata dal principio del famoso 'centralismo democratico', che è esattamente il contrario di qualsiasi forma di democrazia. Insomma feci di tutto, senza volerlo, per costringerli a decidersi a liberarsi di me. Cosa che però fecero soltanto quando un incidente permise loro di espellermi tacendo le vere cause del provvedimento".
Incidente che Guarini così rievoca. "Un giorno, nella redazione di «Paese Sera», il fattorino viene da me e mi dice: 'Compagno Guarini, ho scoperto che il compagno x (e fece il nome di un redattore che si occupava anche dell'amministrazione) si frega una parte del mio stipendio'. E mi spiegò che la somma che gli rubava era un piccolo aumento di stipendio che gli era stato concesso nella forma di un rimborso spese mensile. Faccio allora una piccola indagine telefonando a Roma e apprendo che effettivamente da alcuni mesi l'amministrazione, nella somma che spediva ogni mese alla nostra redazione con un assegno comprensivo di tutti i compensi, era compreso anche il rimborso spese per il fattorino. Ma questo rimborso il compagno incaricato di quell'incombenza non glielo aveva mai dato. A questo punto, se avessi avuto l'esperienza e la saggezza che credo di aver acquisito più tardi (allora avevo ventisei anni), forse mi sarei comportato diversamente. Avrei chiamato il compagno responsabile del furto e gli avrei detto: 'Senti, ma che stai facendo? Stai fregando i soldi al compagno fattorino? Ma come ti è saltato in testa di fare una cosa simile! Ora vediamo insieme come possiamo risolvere decentemente questa faccenda'. Invece, il moralismo comunista che ancora sonnecchiava in me, mi fece fare una grossa sciocchezza".
"Vado dunque in federazione - continua Guarini -, chiedo di parlare col responsabile della commissione stampa e propaganda, che era lo scrittore Aldo De Jaco, e gli riferisco il caso: 'Aldo: così, così e così. Per me in questa redazione la vita non è più possibile, perché si è creata la situazione paradossale di un compagno fattorino il quale sa che il compagno responsabile dell'amministrazione gli frega i soldi, e io sto in mezzo a questi due. Tu che cosa faresti? Come risolveresti il problema?'.
'Bè non lo so. Tu che cosa pensi?'. 'Io penso che dovresti chiamarli tutti e due in federazione e comunque separarli. Insomma io posso restare al mio posto soltanto se il ladro ve lo prendete voi in federazione, oppure lo spostate all'«Unità». Naturalmente potreste fare anche il contrario: vi prendete il fattorino e lo sostituite con un altro. Però questi due, insieme, nello stesso spazio lavorativo, non possono più starci'. 'Hai ragione - dice - ti capisco'. Ma il giorno dopo mi chiama e dice: 'Sai, ho parlato di questa storia con Abdon Alinovi, il segretario di federazione, e lui pensa che il caso ha gravi implicazioni politiche, ragion per cui bisogna discuterlo in federazione in una riunione allargata'. Allora capisco che avevano deciso di farmi fuori. La riunione si fece la sera dopo".
"Vi presero parte - ricorda Guarini -, intorno al tavolo delle riunioni, tutti i redattori delle due redazioni napoletane dell'«Unità» e di «Paese Sera», gli addetti alla distribuzione, gli amministratori e i fattorini: insomma ventidue 'compagni' e altrettanti interventi, tutti per dire la stessa cosa: 'È vero, è successa una cosa incredibile. In questa redazione c'è stato un furto. Così, così e colì. Ma come mai si è arrivati a questa degenerazione del costume redazionale? In questa redazione chi è il compagno iscritto al partito da più anni? Non è proprio il compagno Guarini? Non è dunque a lui che spettava il compito di vigilare sul comportamento dei suoi compagni? E che rapporto c'è fra la prova di superficialità che ha dato in questa circostanza e l'atteggiamento provocatorio che ha assunto negli ultimi tempi sui grandi problemi del partito, sul travaglio che stiamo attraversando? Evidentemente anche questo furto è una conseguenza del clima creato da lui in redazione'. Con le mie tesi critiche avevo insomma determinato un degrado del costume redazionale, per cui il vero responsabile di quel furto in sostanza ero io. Fui quindi invitato a fare l'autocritica. La riunione era incominciata alle quattro del pomeriggio. Ormai era mezzanotte. Io avevo portato con me un pacchetto di tarallucci. Lo svuotai sul banco, mi alzai in piedi e dissi: 'Mangiateveli voi. Non ci vedremo mai più nella vita!'. E me ne tornai a casa con la lieta sensazione di essere riuscito, senza volerlo, a porre fine a un equivoco che era durato dieci anni".

 
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