Il romanzo è una miscela assurda, vuol essere azione e pietrifica ogni gesto e detto come se a recitarli fosse Medusa in persona, ma non desiste, il maledetto, dalla prova, non si sa bene se iniziatica o sportiva, di farne un mosaico di polverami e granelli, e il Dottor Sottile, sottile cercatore dell'anima galileiana, si involge in prospettive cangianti di racconti dentro racconti, sebbene l'autore (che per tutta la durata della fabbricazione, seguendo il saggio consiglio di Joyce, è rimasto a limarsi le unghie e a baloccarsi, mentre l'Opera si faceva a sua insaputa) ignori il senso e lo scopo di quest'arrogante definizione. Orbene, il Dottor Sottile, ridottosi a sostanze fuori dell'azione, cioè a nomi, nonostante il sintattico organarsi del suo percorso, secondo un antico vizio anche suo, in un indispensabile Prologo, un Corpo e una Cauda, incappa nell'estatica, incoerente contemplazione di Mania, dopo averla a lungo e scolasticamente perseguitata. Insomma, rinuncia a essere persona e alla categoria di tempo, scomparendo travolto dal festum fatuorum conclusivo. Inutile soggiungere che, partito da presupposti sintattici e fotografici, perde di vista, sedotto dall'incompetenza della parola a farsi lettura del mondo, il ben dell'intelletto. Lo ritroviamo, a quanto pare, mischiato alle fibre di un albero, tessuto egli stesso, ovviamente paratattico, scoordinato, galgenbumorico, disaffine, prolattico, atonale, carnevalesco, demenziale, quaresimale, scomposito, traumatizzante, sconcio, fittizio, falso, obliquo, tenebroso, angelico, illeggibile, e chi più ne ha più ne metta. Sicché, questo non è un romanzo: è una lingua. Nulla di simile esiste nella letteratura mondiale dacché gli etruschi hanno inventato l'italiano. E soprattutto sia chiaro: non è un libro per tutti. Sulla soglia vigilano incorruttibili guardiani. Il prezzo? Farsi lettoratori. |